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mercoledì 22 aprile 2020

La lotta per la privacy è lotta per la democrazia (seconda parte)

di Enrico Nardelli

Proseguiamo con l'analisi delle posizioni dei tecno-entusiasti, iniziata nella prima parte di questo post, che, nella gestione di questa emergenza sanitaria, vedono soprattutto le opportunità da sfruttare per lo sviluppo digitale del Paese e ne minimizzano i pericoli.

Si dice, ancora, che "in questo momento difficile ci vuole solidarietà e dobbiamo tutti contribuire al bene comune facendoci tracciare". Prima di tutto osservo che quale sia questo "bene comune" non è stato ancora sufficientemente dibattuto, per lo meno in Italia dove abbiamo visto e continuiamo a vedere decisioni prese senza dibattito parlamentare sulla scia di provvedimenti governativi che sono, argomentano alcuni giuristi, al limite dell'incostituzionalità. Notate poi come un'affermazione di questo genere sia, di fatto, la messa la bando del "diverso", vale a dire di chi non vorrà farsi tracciare. La volontarietà che viene infatti ricordata come "salvagente" per chi non fosse d'accordo è in realtà una foglia di fico: se poi l'uso del sistema diventa un meccanismo per controllare l'accesso nei luoghi pubblici (uffici, negozi, ristoranti, cinema, scuole, etc. etc.) allora l'obbligatorietà diventa di fatto la norma e potenziale sorgente di discriminazione.

Non c'è un dilemma etico tra bene comune e posizione individuale, in questo caso, perché non si tratta di scegliere tra privacy e salute. Dobbiamo semplicemente rifiutare le scelte che svendono la privacy e che non sono davvero necessarie per sostenere l'azione sanitaria, che invece avrebbe in primo luogo bisogno di risorse che il mantra "meno Stato, più Mercato" le ha nel decennio passato sottratto.

La mia valutazione sulle motivazioni che stanno dietro l'intenzione espressa da molti governi europei di proseguire su questa strada coincide con quanto dichiarato da una fonte anonima che lavora all'interno del gruppo che si occupa di strategia digitale nel governo francese: «il governo sa che questa app ha bassissime probabilità di essere efficace, ma deve dimostrare che sta facendo qualcosa per metter fine alla quarantena». Inoltre, una tale scelta offre una comoda via di fuga: se non funzionerà, sarà colpa dei cittadini che non l'hanno usata (con conseguente spinta, di nuovo, verso l'emarginazione del "diverso"). È sorprendente che, invece di preservare la dignità della persona umana, già messa a dura prova dalla quarantena, si sposti la responsabilità della soluzione del problema sulle persone, rischiando di scatenare l'odio sociale. Bisognerebbe fornire medicine, assistenza medica, assistenza economica a chi è ridotto alla fame dalla crisi economica conseguente all'emergenza sanitaria.

Il punto è che "dopo", anche se del tutto inutile per lo scopo dichiarato, l'infrastruttura di sorveglianza rischia di rimanere presente in milioni di dispositivi, pronta per altri scopi. Il suo raggio d'azione può essere progressivamente esteso nel tempo, dal coronavirus ad altri virus, ad altre malattie, e pian piano allargato, mediante successivi aggiornamenti automatici, come avviene per le tante app sul nostro smartphone, per altri obiettivi (sempre nell'interesse del bene comune, sia chiaro!). Proprio il fatto che c'è poca consapevolezza di come ci aggiriamo ignari in un mondo digitale per il quale non abbiamo sensori, rende questo non uno scenario paranoico ma una realtà possibile. Per non parlare poi dei nostri dati, magari ceduti a scopo commerciale, visto il grande valore che hanno acquisito, soprattutto per i grandi gruppo industriali dell'Intelligenza Artificiale.


(da "Metropolis" di Fritz Lang, 1927)

E non è tutto. Si arriva ad argomentare: "un quinto della popolazione non ha o non sa usare smartphone? Allora diamogli uno smarphone o un braccialetto elettronico, che fa tutto da solo". Mi chiedo: ma avrebbero fatto il tifo per l'iceberg perché ha fatto capire ai passeggeri del Titanic l'importanza di saper nuotare? Sinceramente, ho paura di chi esprime opinioni di questo genere. Se gli si fa osservare che non è questo il modo migliorare di far diventare digitalmente competenti tutti i cittadini, rispondono che si tratta di posizioni luddiste (che, però, esprimevano esigenze di lotta di classe con solide basi)

Bisogna capire che dare un'arma in mano ad un potenziale avversario pensando che si potrà sempre convincerlo a non usarla non è una strategia vincente se quello ha più potere. È inutile nasconderselo: nonostante gli appelli alla solidarietà e al "volemose bene" (come si dice a Roma) i conflitti di potere esistono. Chi ha il potere di fare le cose ed ha anche i mezzi per farlo, lo farà.

Alcune soluzioni non vanno, a priori, consentite. Punto e basta. L'analisi che ha fatto Michel Foucault della "sorveglianza invisibile" come mezzo per costringere il prigioniero ad interiorizzare la disciplina carceraria è interamente valida per questa "sorveglianza digitale", incarnazione perfetta, proprio perché non si vede, del Panopticon, il carcere ideale pensato nel 1791 da Jeremy Bentham. Rischia di essere il primo passo verso scenari distopici di cittadini tutti obbedienti ed allineati come nel film Metropolis.

Affrontare i problemi sociali mediante soluzioni tecnologiche invece che attraverso il dibattito politico, il potenziamento di un servizio pubblico (l'unico che può non essere guidato dal profitto) e il finanziamento alla ricerca, basata sull'evidenza e sulla discussione, di possibili strumenti che possano aiutare a decidere come intervenire è la manifestazione più eclatante di quel "soluzionismo digitale" che ucciderà la democrazia, se non reagiamo.

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