Pagine

domenica 15 dicembre 2019

Conoscere l'informatica per governare la dimensione digitale della società nell'interesse nazionale

di Enrico Nardelli

Circa un mese fa abbiamo celebrato i 50 anni di internet, un’innovazione che sembrava fosse solo uno strumento ma che un artista visionario come David Bowie, nel corso di un’intervista alla BBC di venti anni fa, aveva definito «una forma di vita aliena, ... la nascita di qualcosa di esaltante e terrificante». Spesso gli artisti vedono con chiarezza ciò che scienziati e tecnologi non riescono ad afferrare bene, soprattutto quando si parla dell’impatto sociale delle loro scoperte.

Gli effetti sociali della tecnologia digitale sono ormai sotto gli occhi di tutti, soprattutto perché queste novità che sembrava dovessero portarci ad un futuro migliore stanno viceversa ingabbiando sempre di più la nostra vita quotidiana.

Nel titolo del libro di Soro presentato nel corso del convegno “I Dati tra Sovranità Digitale e Interesse Nazionale. Le Persone, le Pubbliche Amministrazioni e le Imprese”, svoltosi recentemente nell’Ateneo milanese, compare l’espressione “umanesimo digitale”, un termine che è stato anche al centro di un convegno scientifico cui ho partecipato come presidente di Informatics Europe, l’associazione che raggruppa dipartimenti universitari e centri di ricerca industriali che operano nel settore informatico. Il convegno ha prodotto un documento, il Manifesto di Vienna, che ricorda come le tecnologie digitali «stanno minando la società e mettendo in discussione la nostra comprensione di cosa significhi essere umani». Il manifesto – di cui sollecitiamo l’adesione da parte di persone e istituzioni – ricorda che la sfida per tutti noi è costruire una società giusta e democratica in cui le persone siano al centro del progresso tecnologico.

Questa è una sfida prima di tutto sociale e politica e solo in seconda istanza una sfida scientifica o tecnologica, perché la dimensione digitale è ormai sempre più intrecciata con le varie dimensioni sociali, che coprono tutti i vari rapporti (economici, giuridici, culturali, …) che si stabiliscono tra un insieme di individui. Questa dimensione, che è quella in cui sono presenti i dati digitalizzati, definisce quindi uno spazio sociale che, come ogni altro spazio sociale, può essere costruito secondo diverse visioni politiche. Ritengo quindi del tutto naturale che i governi vogliano attuare la loro attività di indirizzo e gestione anche nei confronti del digitale.

Quest’anno sono state scritte più o meno queste parole: «i dati di una nazione sono una risorsa collettiva, un bene nazionale. Questo paese e il suo popolo hanno un diritto di sovranità su tali dati, diritto che non può essere esteso a coloro che non ne hanno la cittadinanza». Non è avvenuto in Europa, non sono parole di un leader di uno di quei partiti ai quali molti media riservano l’etichetta di populisti. Queste parole sono contenute in un documento del governo indiano che ha definito nel febbraio di quest’anno una bozza di politica nazionale per l’e-commerce.

I think-tank internazionali hanno sollevato i soliti alti lamenti contro un protezionismo che ostacola il commercio e deprime l’economia. Ma non si capisce perché le risorse naturali di una nazione debbano essere protette e quelle digitali no. Ritengo quindi assolutamente legittimo e doveroso che uno Stato governi lo spazio digitale così come governa lo spazio fisico, visto che mondo naturale e mondo digitale sono ormai compenetrati e vanno gestiti insieme. Nella società digitale chi controlla i dati controlla la società. Germania e Francia vogliono cloud nazionali per archiviare dati con la garanzia che rimangano entro il perimetro dello Stato. Parigi e Barcellona sono gli esempi più famosi di città che hanno capito che i dati dei propri cittadini sono un bene preziosissimo.

Cos’è quindi necessario a questo scopo? Alcune riflessioni da studioso e cittadino, lasciando ai politici il compito di tirare le fila.

I nostri “doppi digitali” sono come noi, sono esattamente noi: come chiameremmo quei governanti che vendessero i propri cittadini a poteri stranieri? È lecito che questo accada nella dimensione digitale? A quali fini deve essere asservito il controllo e il governo di infrastrutture e dati digitali? Si ripete spesso negli ultimi anni che “i dati sono il nuovo petrolio”. Ma se questi dati sono quelli delle persone è corretto (socialmente, eticamente e politicamente) considerarli come una merce? Le persone sono una merce? C’è una scarsissima consapevolezza di questi aspetti, se in un famoso esperimento un negozio ha venduto oggetti a clienti che pagavano con i propri dati personali. Chiedo scusa in anticipo se il paragone è macabro, ma vi privereste di un dito per comprare un’automobile?

Penso che lo spazio digitale, come le soluzioni ad esso connesse, vadano curati nell'interesse della Nazione, cioè nell’interesse dei suoi cittadini. Abbiamo bisogno di una politica che ritorni ad esercitare per conto del popolo quella sovranità che l'articolo 1 della nostra Costituzione gli assegna.

Per far ciò è però necessario capire bene il nucleo fondante di questa “forma di vita aliena”, col termine usato da David Bowie vent’anni fa.

Il punto è che l’impatto del digitale sulla società è una vera e propria rivoluzione, che sarebbe più corretto chiamare rivoluzione informatica, perché è dovuta, più che al modo di rappresentare i dati, appunto in forma digitale, al fatto che l’informatica, la disciplina scientifica che è alla base di questa tecnologia, ci permette di costruire un nuovo tipo di macchine.

Queste macchine ricordano quelle che, nel corso della rivoluzione industriale, hanno reso possibile la trasformazione della società da contadina a industriale, ma sono diverse ed enormemente più potenti. Le macchine industriali sono degli amplificatori della forza fisica dell’uomo, le macchine della rivoluzione informatica sono macchine cognitive, amplificatori delle funzioni cognitive razionali dell’essere umano.

Attività cognitive che solo gli esseri umani erano in grado di compiere fino a poco tempo fa adesso sono alla portata delle macchine. Abbiamo iniziato con cose semplici, mettere in ordine liste di nomi, ma adesso possiamo riconoscere se un frutto è maturo o se un tessuto presenta difetti, per parlare di un paio di esempi resi possibili da quella parte dell’informatica che va sotto il nome di intelligenza artificiale.

Ci sono due problemi, però.

1. Queste macchine cognitive non hanno né flessibilità né adattabilità per cambiare il loro modo di operare al mutare delle condizioni al contorno. Tutti possibili scenari futuri devono essere stati in qualche modo previsti dai progettisti. Non possiamo quindi lasciarle operare da sole, a meno che non siano in contesti in cui siamo completamente sicuro che tutto è stato tenuto in considerazione. I giochi sono un esempio paradigmatico di questi scenari. Queste macchine cognitive sono meccanismi automatici, giganteschi orologi che si comportano sempre nello stesso modo. Questo è il motivo per cui molto spesso la trasformazione digitale fallisce. Perché si pensa che, una volta realizzato il sistema informatico, il lavoro sia completato. Invece, poiché nessun contesto è statico ed immutabile, sistemi informatici non accompagnati da persone in grado di adattarli all’evoluzione degli scenari operativi sono destinati al fallimento.

2. Queste macchine cognitive sono del tutto distaccate da cosa significhi essere persone. Qualcuno lo vede come un pregio, per me è un enorme difetto. Io ritengo che non esista la possibilità di determinare un unico modo migliore di prendere le decisioni. Quelli che pensano che mediante l’intelligenza artificiale si possa governare la società umana nel modo migliore per tutti sono degli illusi (o hanno interessi nascosti). Da che esiste la società umana è compito della politica quello di determinare la sintesi tra le esigenze contrastanti che sempre esistono in ogni consesso. E tale sintesi non può prescindere dal nostro essere umani. L’unica intelligenza che può prendere decisioni appropriate in questo contesto è l’intelligenza incarnata delle persone, non quella artificiale delle macchine cognitive.

Per avviarci però ad essere una società che governa in modo appropriato il digitale non possiamo prescindere – e siamo già in mostruoso ritardo – da una seria azione formativa a tutti i livelli sull’informatica. È necessario che l’informatica, la scienza che è alla base del mondo digitale, entri nella scuola così come ci sono fisica e biologia, le scienze alla base del mondo naturale.

Negli ultimi tempi sento spesso ripetere che bisogna insegnare il nuovo linguaggio del coding, cioè la programmazione informatica. Controbatto sempre che concentrarsi sul coding vuol dire formare operai digitali, che saranno i primi ad essere sacrificati dall’avanzare della tecnologia, e che invece bisognare insegnare i concetti scientifici di base dell’informatica.

Questa è la strada che stanno seguendo negli USA, un paese che ha lanciato la mania del coding, ma che poi ha inserito la Computer Science, cioè l’informatica, nella legislazione federale che prescrive quali sono le materie che uno studente deve studiare per ricevere un’istruzione “a tutto tondo”. Un’espressione molto umanistica per rimarcare che l’investimento in educazione è quello più importante e fruttuoso sul lungo periodo che un Paese possa fare.

In Europa, l’associazione di cui sono presidente, Informatics Europe, insieme ad altre associazioni scientifiche, ha lanciato l’iniziativa “Informatica per Tutti” con una dichiarazione, la Dichiarazione di Roma che chiede a tutte le istituzioni europee e internazionali di adoperarsi affinché lo studio dei fondamenti dell’informatica, indispensabili alla comprensione del mondo digitale, sia inserito nella scuola, a fianco dei fondamenti delle altre discipline scientifiche che rendono possibile alle persone di essere cittadini pienamente consapevoli della società contemporanea.

Come per altri grandi temi sociali, è compito della politica decidere cosa fare. Nella sfera del digitale, io sono solito ricordare una citazione di Evgenj Morozov (uno dei sociologi più lucidi in questo ambito) che nel suo libro “I signori del silicio” ha scritto «per un partito di massa odierno, non curarsi della propria responsabilità sul digitale equivale a non curarsi della propria responsabilità sul futuro stesso della democrazia».

--
Versione originale pubblicata su "Key4Biz" il 2 dicembre 2019.

sabato 26 ottobre 2019

Informatica, pensiero computazionale e test PISA

di Enrico Nardelli

L’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) è l’istituzione internazionale che gestisce i test PISA (Program for International Student Assessment – Programma per la Valutazione Internazionale degli Studenti) che ambiscono a fornire una misura del livello di apprendimento degli studenti (a 15 anni di età) confrontabile nei diversi paesi del mondo. Non affronto qui la questione tuttora aperta dell’affidabilità metodologica e concettuale di tali test o della loro valenza politica. Indico al lettore interessato a tali questioni un punto di partenza da cui continuare per formarsi un’opinione.

Discuto invece la revisione apportata al test di matematica che, insieme a quello di lingua madre e di scienze, costituisce la batteria somministrata ogni tre anni nelle scuole di circa 80 paesi in tutto il mondo. Ognuno dei test viene rivisto a fondo, una volta ogni nove anni, per adeguarlo ad eventuali evoluzioni disciplinari o di scenario della formazione. Per i test PISA del 2021 la revisione ha riguardato la prova di matematica nell’ambito della quale verranno per la prima volta inserite domande relative al cosiddetto “pensiero computazionale”. La notizia è apparsa in un post appena pubblicato sul blog dell’OECD dal significativo titolo “Informatica e PISA 2021”.

Si tratta di un termine che ho discusso diverse volte (ad esempio, qui, qui e qui) e che, in estrema sintesi, si riferisce al modo di pensare, di considerare i fenomeni e di affrontare problemi, che ha sviluppato chi ha studiato informatica. Il fatto che sia stato inserito all’interno del test PISA di matematica è la conferma – come da tempo sostengo, insieme a colleghi di tutto il mondo – dell’importanza di insegnare informatica nella scuola fin dai primi anni.

Ho formulato una definizione più articolata del pensiero computazionale in questo articolo come «l’insieme dei processi mentali usati per modellare una situazione e specificare i modi mediante i quali un agente elaboratore di informazioni può operare in modo effettivo all’interno della situazione stessa per raggiungere uno o più obiettivi forniti dall’esterno» (si veda la figura tratta dall’articolo per una sua rappresentazione grafica).


L’elemento in assoluto più rilevante in tale definizione è la presenza dell’agente autonomo che elabora le informazioni. Esso infatti è un esecutore che – anche nel caso in cui venga sostanziato da un essere umano – opera in modo completamente meccanico ed automatico.

In altre parole, tale esecutore opera secondo direttive esterne in modo totalmente fedele alle istruzioni fornitegli. È proprio la presenza di questo esecutore meccanico (cioè, di un meccanismo) che rende l’informatica una disciplina scientifica nuova e separata dalla matematica. In sua assenza abbiamo una formalizzazione di scenari di tipo puramente matematico, in cui l’esecuzione è compito del matematico stesso. Non è una differenza da poco, dal momento che le persone sono dotate di un’intelligenza che le rende adattabili, flessibili ed in grado di imparare dall’esperienza, mentre i meccanismi – anche se dotati della cosiddetta intelligenza artificiale – non hanno queste caratteristiche in modo generale.

Il fatto che l’OCSE, nel rivedere il test di Matematica, abbia indicato l’importanza per questa materia di aver assimilato elementi del modo di pensare degli informatici è un segno importante del fatto che sta maturando un po’ a tutti i livelli la consapevolezza del ruolo dell’informatica nel panorama delle discipline scientifiche.

In aggiunta l’OCSE ha annunciato che, mediante un ulteriore test opzionale, cioè quello relativo alle competenze ICT (Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione), verificherà la capacità degli studenti di scrivere correttamente programmi informatici che realizzano algoritmi per la risoluzione di problemi. Anche questa è una notizia positiva che punta nella stessa direzione di far sì che nella scuola si inserisca la formazione sui fondamenti scientifici dell’informatica.

Sarebbe stato più opportuno aggiungere queste verifiche sull’informatica all’interno del test di Scienze, dal momento che – come abbiamo argomentato a livello europeo con il rapporto “Informatics for All: the strategy” – l’informatica è la disciplina scientifica che spiega la realtà digitale, un mondo che è ormai altrettanto presente e reale della realtà fisica o di quella dei sistemi viventi. D’altro canto variazioni di questo tipo hanno un impatto molto vasto e profondo ed è quindi anche comprensibile che vengano adottate gradualmente. Staremo a vedere quello che succederà nei prossimi anni.

--
Versione originale pubblicata su "Il Fatto Quotidiano" il 17 ottobre 2019.

domenica 5 maggio 2019

Governati da macchine intelligenti? No, grazie!

di Enrico Nardelli

È apparsa recentemente la notizia di un’indagine svolta dal “Center for the Governance of Change” dell’università IE di Madrid (un’università privata in area economico-finanziaria e giuridica) che ha investigato l’atteggiamento dei cittadini europei nei confronti dei cambiamenti tecnologici e come pensano i loro governanti debbano gestire queste trasformazioni.

Il rilevamento, condotto su 2.576 cittadini di 8 nazioni europee, ha riscontrato che tre cittadini su quattro ritengono che, se non sono adeguatamente controllate, le nuove tecnologie causeranno più danni che benefici nel prossimo decennio. E si aspettano quindi che i governi approvino leggi per evitare che la crescente automazione sia causa di perdita di posti di lavoro.

In aggiunta, sette cittadini europei su dieci sono preoccupati che in futuro le persone spendano più tempo socializzando online invece che di persona e ritengono che il sistema educativo non li prepari adeguatamente alle sfide delle nuove tecnologie.

Viene inoltre riportata una certa disillusione verso l’attuale classe politica, tant’è che un cittadino europeo su quattro dichiara che preferirebbe essere governato da un’intelligenza artificiale invece che da politici in carne ed ossa.

Quest’ultimo elemento in sé mi fa un po' rabbrividire: l'idea che qualcuno pensi che le macchine siano meglio degli esseri umani, indica quanto poco le persone in generale siano non dico educate ma almeno informate su cosa sia l’informatica, la disciplina scientifica che è dietro la trasformazione digitale e cosa sia realistico aspettarsi dai sistemi di intelligenza artificiale, uno dei settori dell’informatica in cui in questo momento è concentrata l’attenzione di tutti.

Ed è ancora più rabbrividente il fatto che i laureati siano più favorevoli a questa soluzione rispetto a chi una laurea non ce l’ha. A mio avviso questo può essere spiegato dai recenti risultati della psicologia sociale sulla relazione inversa tra livello culturale e capacità di valutare in modo oggettivo temi politicamente controversi. Tale ricerca ha infatti evidenziato che, mentre persone culturalmente più preparate sono meglio in grado di valutare fatti oggettivi presentati in maniera neutra (per esempio il risultato di un trattamento dermatologico), quando invece le stesse evidenze sperimentali sono presentate in un contesto caratterizzato da un punto di vista politico-sociale (per esempio il risultato di una politica di controllo delle armi private) allora lo stesso gruppo di persone valuta la situazione in maniera peggiore di chi è meno preparato culturalmente.

Da studioso, ho poi delle perplessità su come sono stati riportati i risultati di questa specifica domanda. È stata infatti formulata come "Che ne pensi di consentire ad un’intelligenza artificiale di prendere importanti decisioni su come governare il Paese?” (How do you feel about letting an artificial intelligence make important decisions about the running of the country?) ma si riportano in modo aggregato le risposte “in qualche modo favorevole” (somewhat in favor) e “completamente favorevole” (totally in favor) senza fornirne i valori separati e senza sapere quali siano le altre possibili risposte e con quale frequenza media siano state scelte. Siamo tutti d’accordo, penso, che tra “in qualche modo” e “completamente” c’è una bella differenza.

Ho infine una riflessione importante relativa al pensiero critico e all’educazione ai media, temi che dovrebbero far parte dello studio dell’educazione civica recentemente reintrodotto nelle scuole e la cui proposta sarà discussa in questi giorni alla Camera.

Se ci si riflette con calma e prestando attenzione al punto di vista complementare, si nota infatti che il dato riportato implica che tre cittadini europei su quattro si oppongono a quest’idea di essere governati da “macchine intelligenti”.

Al contrario, il comunicato stampa e il lancio della notizia si sono concentrati su quel cittadino su quattro che vuole essere governato dalle macchine, come – a pensar male si fa peccato ma... – a voler suggerire che invece di una democrazia a suffragio universale che elegge “politici incapaci” siano meglio asettiche “macchine intelligenti” che non sbagliano mai. Mi sembra un’osservazione rilevante sul piano politico e mediatico. “Cui prodest?” e “quis custodiet ipsos custodes?” si studiava un tempo al liceo...

--
Versione originale pubblicata su "Il Fatto Quotidiano" il 30 aprile 2019.

sabato 30 marzo 2019

Informatica e coding: la visione di Code.org

di Enrico Nardelli

In un mio recente articolo ho discusso delle relazioni tra informatica e coding nell’ambito dell’istruzione scolastica. Ne è scaturito un interessante dibattito sui social, nel corso del quale c’è chi ha “parteggiato” per il coding e chi per l’informatica. Dal momento che il coding (cioè la programmazione informatica) è parte dell’informatica (come discusso qua, qua e qua) ritengo utile sentire un’autorevole posizione a proposito di cosa vada insegnato a scuola.

Nel novembre scorso vi è stato in Argentina l’incontro dei Ministri dell’Istruzione del G-20. In occasione di questo incontro, dedicato allo sviluppo sostenibile, si è parlato dei problemi dell’alfabetizzazione digitale: Hadi Partovi, fondatore e CEO di Code.org ha tenuto un appassionato discorso su cosa è necessario fare per preparare i ragazzi in modo adeguato alla società digitale.

Dopo aver ribadito che l’insegnamento della matematica e delle altre scienze è fondamentale, Partovi sostiene che, così come insegniamo a svolgere divisioni e come funziona il corpo umano, è altrettanto importante insegnare cosa sono gli algoritmi e con che princìpi funziona Internet. Il problema è che, in generale, nelle scuole di tutto il mondo ci si focalizza spesso solo su come usare la tecnologia digitale. Dobbiamo invece insegnare come creare, come capire e come sfruttare questa tecnologia. A questo scopo, ha esplicitamente sostenuto che bisogna imparare l’informatica. Qua sotto un immagine del passaggio cruciale del suo discorso.


Ha sottolineato che il punto focale non è imparare il coding, nonostante la sua organizzazione si chiami, appunto, Code.org. Lo snodo è imparare l’informatica (ha usato computer science, il termine inglese per l’informatica), una disciplina scientifica che, ha ricordato, «include la programmazione, gli algoritmi, la data science, le reti, la sicurezza informatica, la robotica, l’intelligenza artificiale», e molto altro ancora.

Ricordo che Code.org ha lanciato l’evento educativo con la maggiore partecipazione al mondo, l’Ora del Codice (the Hour of Code – in cui sostanzialmente si esortano i ragazzi a programmare il computer), trasformando così il coding in un fenomeno di massa globale. Attraverso Programma il Futuro, il progetto che coordino, l’Italia è dopo gli Stati Uniti, il secondo paese al mondo per partecipazione, grazie all’impegno degli insegnanti iscritti al progetto.


Quindi, nonostante Hadi Partovi sia forse il principale artefice della “coding mania”, è convinto – e lo ha ripetuto di fronte ai Ministri dell’Istruzione del G-20 – che la soluzione non sia insegnare il coding, ma l’informatica. Ecco il suo discorso integrale doppiato in italiano. Più recentemente Partovi ha ribadito la stessa posizione in suo intervento al Word Economic Forum di Davos. Grazie all’opera di Code.org e della coalizione CSforAll ("Informatica per tutti" – di cui fanno parte tutte le maggiori aziende americane operanti nel settore delle tecnologie e servizi informatici) gli USA hanno inserito l’informatica (non il coding!) tra le materie di cui la legislazione scolastica federale richiede l’insegnamento per tutti i ragazzi e 44 stati su 50 l’hanno introdotta come materia obbligatoria nei programmi scolastici.

È quindi fondamentale insistere sull’importanza di una seria formazione scientifica sull’informatica fin dai primi anni di scuola. A tal scopo la comunità universitaria dell’informatica ha da tempo presentato al Ministero dell’Istruzione una proposta organica, basata su molteplici pluriennali esperienze sul campo. Siamo consapevoli che non si tratta di un’operazione semplice, nel contesto della scuola italiana. Ma pensiamo per un attimo di fare “tabula rasa” dei programmi scolastici e di voler riempire questo foglio bianco con quanto serve per preparare cittadini in grado di operare nella società digitale con sufficiente conoscenza delle questioni in gioco. Possiamo lasciar fuori la scienza che spiega e rende possibile questa società?

Recentemente alla Camera si è dibattuto di iniziative per lo sviluppo della formazione tecnologica e digitale in ambito scolastico, ma – pur essendo consapevole che il linguaggio della politica è diverso da quello della scienza – osservo che c'è ancora molto da fare in termini di diffusione di una corretta conoscenza dei termini e delle esperienze svolte.

--
Versione originale pubblicata su "Il Fatto Quotidiano" il 20 marzo 2019.

lunedì 18 marzo 2019

Informatica e competenze digitali: cosa insegnare?

di Enrico Nardelli

Risposta breve: entrambe. Domanda: ma non sono la stessa cosa? No, ma molti nella scuola e nella società non ne sono consapevoli.

Nel mondo della scuola, in particolare, c’è confusione tra i due aggettivi “informatiche” e “digitali” ed i relativi sostantivi. Ma non è affatto colpa dei docenti, né cercare chi sia il colpevole ha una qualche utilità. Nel corso del recente Seminario Nazionale del MIUR su “Cittadinanza e cultura digitale”, uno dei valenti colleghi al tavolo dei relatori ha ricordato come nel corso degli ultimi 30 anni nella scuola si sia parlato di competenze informatiche e di competenze digitali intendendo di volta con l’uno o l’altro termine: la capacità di programmare in Pascal, di usare Word, di scrivere e-mail, di fare coding, di usare consapevolmente i social, e così via. Non è sorprendente quindi che molti dei dibattiti e degli interventi di comunicazione su queste tematiche dicano cose tra loro contrapposte.

Allora nella mia presentazione ho ricordato prima di tutto l’etimologia delle due parole: “digitale” si riferisce alla rappresentazione di un dato mediante un simbolo numerico, mentre “informatico” si riferisce alla capacità di elaborazione automatica dei dati resa possibile dai metodi e dalle teorie dell’informatica, che è una disciplina scientifica. Rappresentare dati attraverso simboli numerici non è una novità degli ultimi decenni. Lo facevano i Babilonesi per il calcolo delle orbite astronomiche e gli antichi Egizi per il calcolo delle superfici dei terreni, ognuno con il loro sistema di rappresentazione. La novità è la possibilità di elaborare queste rappresentazioni in modo automatico (cioè l’informatica), come se fosse all’opera un gigantesco complicatissimo orologio.

È chiaro a tutti che l’orologio è un mero esecutore meccanico di un calcolo pensato e progettato dall’uomo, e che un orologio non “sa” cosa siano e cosa rappresentino e a cosa servano i diversi ingranaggi che lo costituiscono. Ma la realizzazione dei computer, grazie all’informatica, consente di avere, per la prima volta nella storia dell’umanità, un sistema automatico che, manipolando simboli di cui ignora il significato secondo istruzioni di cui ignora il significato, trasforma dati che hanno significato per l’uomo. Si ottiene quindi una “macchina cognitiva”, che realizza, cioè, operazioni di natura cognitiva. Si tratta di una vera e propria rivoluzione, la “rivoluzione informatica”, che ho caratterizzato come la terza "rivoluzione dei rapporti di potere".

Adesso si chiede alla scuola di adeguarsi al fatto che siamo in una società digitale e quindi deve preparare cittadini digitali. Cosa fare? Servono “competenze digitali” o “competenze informatiche”? Per chiarirci è bene rifarci all’etimologia sopra ricordato. Le competenze digitali sono tutte quelle relative all’uso di tecnologie che manipolano dati in forma numerica: sono quindi competenze operative. Invece le competenze informatiche sono quelle attinenti ai princìpi e alle tecniche dell’informatica: sono pertanto competenze scientifiche. Servono entrambe, ma hanno scopi diversi.

I documenti dell’Unione Europea in proposito fanno purtroppo un po’ di confusione, mescolando gli aspetti operativi e quelli scientifici. Non è una mia opinione. Leggendo, ad esempio, la Raccomandazione del Consiglio dell’Unione Europea del 22 maggio 2018 si vede che la programmazione viene considerata una competenza digitale quando si tratta invece di una parte fondamentale dell’informatica, quindi di una competenza scientifica. Considerare la programmazione informatica come una competenza operativa invece che come uno degli elementi fondamentali dell’informatica, che è disciplina scientifica, equivale a degradare l’aritmetica ad una competenza operativa (quella della tabellina pitagorica). Negli Stati Uniti, in UK e in molti altri paesi avanzati la differenza è invece chiara.

In questi paesi si considera, correttamente, l’attuale società digitale come un’evoluzione della società industriale. Quest’ultima è stato il risultato della trasformazione della società agricola sotto la spinta della rivoluzione industriale. La società digitale è ancora una società di macchine, ma di tipo digitale, le “macchine cognitive”. Per preparare i cittadini alla società industriale, nei due secoli passati, non sono state date agli studenti competenze operative sui macchinari industriali, ma sono state inserite nelle scuole le discipline scientifiche che ne spiegavano i princìpi scientifici alla base. Allo stesso modo, per preparare i cittadini a comprendere appieno la società digitale serve inserire nella scuola la formazione sulla disciplina scientifica che la spiega e che l’ha resa possibile: l’informatica. Questo non nega che nella scuola servano anche le competenze digitali, il livello operativo. È bene averle, e sono trasversali a qualunque disciplina, perché in ogni materia il docente può avvantaggiarsi nella sua attività didattica e di gestione dal possesso di un buon livello di competenze digitali.

In conclusione, certamente la scuola deve formare le competenze digitali degli studenti (livello operativo) e deve assicurarsi che le posseggano anche i loro docenti, di ogni materia. Però è assolutamente necessario fornire un’istruzione informatica agli studenti (livello scientifico), per renderli in grado di partecipare in modo attivo e informato alla società digitale.

--
Versione originale pubblicata su "Il Fatto Quotidiano" il 13 marzo 2019.

venerdì 15 marzo 2019

Trasformazione digitale e sviluppo dell'Italia

di Enrico Nardelli

Un tema fondamentale su cui molto si discute è quello dell'informatica (anche se adesso è di moda dire "digitale") come strumento fondamentale per ridare competitività ed efficienza al sistema produttivo del Paese ed alla sua Pubblica Amministrazione. Vorrei esporre in merito alcuni spunti di riflessione.

La Pubblica Amministrazione è drammaticamente indietro in termini di comprensione di come l'informatica possa dare efficienza ed efficacia alle sue azioni. Da un lato vi sono le normative alle volte troppo rigide nel rispetto della forma perché ossessionate dal binomio corruzione/sprechi quando invece sarebbe necessario un radicale cambiamento di approccio, inadeguato alla realtà dello sviluppo dei sistemi informatici.

Dall'altro pesa una carenza culturale dei suoi dirigenti nel capire le implicazioni dell’usare l'informatica nelle organizzazioni. Il mio collega universitario Paolo Coppola nella precedente legislatura ha guidato la commissione parlamentare d'inchiesta sulla digitalizzazione della PA che ha messo in luce, durante le sue audizioni, come in molti, troppi, ministeri ed enti pubblici si sia rimasti fermi ad una visione dell’informatica come automazione “a silos” di singole funzioni di elaborazione dati, slegate da una visione globale e di processo delle relazioni tra l’organizzazione in sé, le sue interfacce nella rete della PA e i cittadini. Il tutto complicato da una visione “tradizionale” dell’automazione, che assume che una volta che l’esecuzione di una funzione sia stata affidata ad una macchina, il problema si possa considerare risolto. Nel caso dell’informatica non è così, la vera informatizzazione dei servizi è sempre in fase di manutenzione, perché è la realtà ad essere in continua evoluzione. Ma se non si hanno “in casa” le persone in grado di realizzare questa manutenzione, se si deve ricorrere continuamente al fornitore esterno, costi e tempi lievitano in modo intollerabile.

Purtroppo la nostra classe politica si è spesso riempita la bocca del digitale, ma non ha mai messo in gioco la sua influenza e il suo peso per far cambiare davvero le cose. Nei vari partiti ci si limita ad inseguire i termini più alla moda nella sfera del digitale (ieri il cloud e i big data oggi l’intelligenza artificiale e la blockchain) senza affrontare alla base un tema fondamentale per il nostro futuro. Come ha scritto magistralmente Morozov qualche anno fa (I signori del silicio) “per un partito di massa odierno, non curarsi della propria responsabilità sul digitale equivale a non curarsi della propria responsabilità sul futuro stesso della democrazia”. Adesso la ministra Bongiorno vuole spingere l’acceleratore sulla trasformazione digitale della PA, ma temo che nominare generali senza dotarli di adeguati eserciti non servirà a molto. In assenza di un significativo numero di assunzioni di diplomati e laureati in informatica, efficienza ed efficacia della PA non riusciranno a migliorare.

Un atteggiamento parallelo, ma con diverse motivazioni, lo ha tenuto il sistema produttivo. Questo in Italia è costituito essenzialmente da micro e piccole imprese, che non usano il digitale o lo usano poco non perché – come dice qualcuno – sono pervase dal familismo amorale o non ne hanno capito il potenziale di vantaggio competitivo, ma perché sistemi informatici troppo rigidi costituirebbero la melassa che li ucciderebbe rapidamente. Il tipico industriale italiano – per niente stupido e che della flessibilità e velocità di cambiamento ha fatto la sua arma strategica – l'ha intuito ed è rimasto un po' a guardare: primum vivere!

Anche questo atteggiamento deriva da una carenza culturale, ovvero dal non aver capito che l'unica informatica buona è quella "personalizzata" che accompagna l'azienda in modo flessibile, come se fosse una persona, ma che è in grado di lavorare senza stancarsi e senza sbagliare, come purtroppo accade alle persone. E questo non si può ottenere semplicemente comprando soluzioni “chiavi in mano”, come è avvenuto per le precedenti innovazioni tecnologiche. Mentre gli imprenditori sono sempre stati agili nel modernizzare le linee produttive ogni qualvolta hanno intravisto un’opportunità di mercato, nel caso dell’automazione digitale, capendo il pericolo della sua rigidità, gli imprenditori, dovendo mettere in gioco i loro capitali, sono prudentemente rimasti alla finestra, senza sprecare risorse economiche.

È un problema culturale, ma anche politico. La spesa pubblica di Impresa 4.0 è certamente positiva, ma se poi questa serve a comprare soprattutto macchinari e soluzioni estere, è difficile che possa contribuire al rilancio del Paese. Andrebbe attuato un massiccio programma di supporto alla formazione dei lavoratori attivi, che non può limitarsi alle pur necessarie competenze digitali dell’utente finale. Gli USA lo hanno capito benissimo tanto da istituire l’anno scorso il “Consiglio Nazionale per il Lavoratore Americano” con l’obiettivo di migliorare istruzione e formazione professionale dei lavoratori, in modo da renderli competitivi nel sistema industriale, sempre più pervaso di digitale, che ci aspetta in futuro.

La sfida per capire l'informatica è comprendere che, da soli, hardware e software sono soluzioni migliorative solo sul breve periodo. A medio e lungo termine serve avere le persone che siano in grado di adattare queste soluzioni digitali (che io chiamo “macchine cognitive”, perché sono costituite da intelligenza umana cristallizzata in forma di meccanismo) alle mutare delle esigenze al contorno. Gli scenari di business cambiano quasi settimanalmente, il software non è in grado di adeguarsi, servono le persone in grado di farlo. Serve anche incentivare la crescita di un settore italiano dell'informatica, in grado di sviluppare e far evolvere soluzioni appropriate per la nostra società.

I politici del cambiamento riusciranno a cambiare questo stato di cose?

--
Versione originale pubblicata su "Agenda Digitale" il 7 marzo 2019.

martedì 26 febbraio 2019

Informatica: la terza rivoluzione "dei rapporti di potere"

di Enrico Nardelli

L’informatica costituisce una vera e propria rivoluzione per l’umanità, che io chiamo la “terza rivoluzione dei rapporti di potere”.

Le prime due sono state quella della stampa e quella industriale.

L'invenzione nel quindicesimo secolo della stampa a caratteri mobili ha provocato una rivoluzione nella società sia di tipo tecnico, perché ha reso possibile produrre testi in modo più veloce e più economico, sia di tipo sociale, perché ha reso possibile una più diffusa circolazione della conoscenza. In ultima analisi, ciò che è accaduto è stata la prima rivoluzione nei rapporti di potere: l’autorità non era più legata alla parola, al dover essere in un certo luogo in un certo momento per poter sapere ed apprendere dalla viva voce del maestro. La conoscenza rimane sempre un potere, ma questo potere non è più confinato alle persone che lo posseggono o a coloro che possono essere vicine ad esse nel tempo e nello spazio. La replicabilità del testo ha implicato la replicabilità della conoscenza in esso contenuta a distanza di tempo e di spazio. Tutti coloro che sapevano leggere potevano avere adesso accesso alla conoscenza. Questo ha messo in moto cambiamenti sociali epocali: la diffusione della conoscenza scientifica, giuridica e letteraria hanno dato un enorme impulso all’evoluzione della società, che è diventata sempre più democratica.

Nel giro di due secoli e mezzo, quasi ottocento milioni di libri stampati in Europa hanno messo in moto un irreversibile processo di evoluzione sociale. La conoscenza scientifica, rivoluzionata dal metodo galileiano, proprio grazie alla stampa si diffonde in tutta l’Europa e costituisce uno dei fattori abilitanti della successiva rivoluzione, quella industriale, che io individuo come la seconda rivoluzione nei rapporti di potere.

Questa, avviatasi nel Settecento è stata altrettanto dirompente: la disponibilità di macchine ha in questo caso reso replicabile il lavoro fisico delle persone. Le braccia umane non sono più necessarie perché la macchina opera al loro posto. Si ottiene una rivoluzione tecnica, perché si replicano più velocemente i manufatti. Le macchine possono produrre giorno e notte senza stancarsi, possono addirittura produrre altre macchine, amplificano e potenziano le capacità fisiche degli esseri umani. Si ottiene una rivoluzione sociale: si abbattono limitazioni fisiche al movimento e all'azione. Una singola persona può spostare enormi montagne di terra con una ruspa, spostarsi velocemente con un’automobile, parlare con chiunque nel mondo con un telefono. L'evoluzione ed il progresso della società umana vengono quindi ulteriormente accelerati grazie alla possibilità di produrre oggetti fisici più velocemente e più efficacemente, per non parlare delle conseguenze in termini di trasporto di persone e cose. Il potere che viene messo in discussione in questo caso è quello della natura: l’umanità assoggetta la natura e ne supera i limiti. Si possono attraversare velocemente i mari, solcare i cieli, imbrigliare acqua e fuoco, spostare montagne.

La rivoluzione della stampa aveva dato una marcia in più all'umanità sul piano immateriale dell’informazione, la rivoluzione industriale ha fatto altrettanto per la sfera materiale. Il mondo si popola di "artefatti fisici" (cioè macchine) che iniziano ad incidere in modo esteso ed approfondito sulla natura del pianeta.

Poi, a metà del Novecento, dopo circa ottocento miliardi di macchine, si avvia lentamente la terza rivoluzione nei rapporti di potere, quella dell’informatica.

All’inizio sembra essere niente altro che una variante evoluta dell’automazione prodotta dalla rivoluzione industriale, ma dopo qualche decennio si comincia a capire che è molto di più di questo, perché incide sul piano cognitivo e non su quello fisico. Non si tratta più di replicare la conoscenza statica dei libri e la forza fisica di persone e animali, ma quella “conoscenza in azione” che è il vero motore dello sviluppo e del progresso.

Col termine “conoscenza in azione” intendo quel sapere che non è soltanto una rappresentazione statica di fatti e relazioni ma un processo dinamico e interattivo di elaborazione e di scambio dati tra soggetto e realtà. Grazie alla rivoluzione informatica, questa “conoscenza in azione” (“actionable knowledge”, direbbero in inglese, cioè conoscenza pronta ad essere messa in azione) viene riprodotta e diffusa sotto forma di programmi software, che possono poi essere adattati, combinati e modificati a seconda di specifiche esigenze locali. È cambiata la natura degli artefatti, delle macchine, che produciamo. Non sono più artefatti fisici, sono “artefatti cognitivi dinamici” (o macchine della conoscenza o macchine cognitive), azione congelata che viene sbloccata dalla sua esecuzione in un computer e genera conoscenza come risultato di tale esecuzione. La conoscenza statica dei libri diventa conoscenza dinamica nei programmi. Conoscenza in grado di produrre automaticamente, senza l’intervento umano, nuova conoscenza. Abbiamo una rivoluzione tecnica, cioè l’elaborazione più veloce dei dati, ma anche una rivoluzione sociale, cioè la generazione di nuova conoscenza. Il potere che viene scardinato, in questo caso, è quello dell’intelligenza umana. Certe attività cognitive non sono più dominio esclusivo dell’umanità: lo vediamo in tutta una serie di giochi da scacchiera (dama, scacchi, go, …) un tempo unità di misura per l’intelligenza e nei quali ormai il computer batte regolarmente i campioni del mondo. Lo vediamo in tutta una serie di attività lavorative un tempo appannaggio esclusivo delle persone e nelle quali sono ormai abitualmente utilizzati i cosiddetti “bot”, sistemi informatici basati su tecniche di apprendimento e deduzione automatica (“machine learning” e “artificial intelligence”).

Ci sono però due caratteristiche distintive di queste “macchine cognitive” che le rendono differenti dal modo di operare dell’essere umano: la flessibilità e l’adattabilità. Le persone sono intrinsecamente in grado di apprendere ciò che non sanno (mentre le macchine della conoscenza possono apprendere solo ciò per cui sono state progettate) ed hanno imparato, attraverso milioni di anni di evoluzione, ad adattarsi flessibilmente a cambiamenti imprevisti nell’ambiente (mentre le macchine cognitive possono – ancora una volta – adattarsi solo ai cambiamenti previsti).

Pertanto, mentre questi artefatti cognitivi dinamici basati sull’intelligenza artificiali sono certamente utili al progresso della società umana, e si diffonderanno sempre di più mentre le persone cambieranno il tipo di lavoro che fanno (come d’altro canto è accaduto in passato: nell’Ottocento più del 90% della forza-lavoro era impiegata nell’agricoltura, adesso è meno del 10%) è della massima importanza che ogni persona sia appropriatamente istruita e formata nelle basi concettuali della disciplina scientifica che rende possibile la costruzione di tali macchine.

Solo così l’umanità potrà continuare a dirigere e governare il proprio futuro.

--
Ripreso dal capitolo "Informatica: dal coding al computational thinking", dello stesso autore, pubblicato nel libro "Per un'idea di scuola", della casa editrice Lisciani Scuola, in corso di pubblicazione.

lunedì 25 febbraio 2019

Informatica e coding: facciamo chiarezza

di Enrico Nardelli

È risaputo che per far presa sulle persone bisogna comunicare usando messaggi semplici. Tuttavia ciò che è semplice non sempre fornisce una chiave di lettura adeguata per la realtà. Un esempio attuale è quello relativo al coding, la programmazione informatica, di cui si sente parlare sempre più frequentemente. Nella sfera mediatica molti parlano dell’importanza di insegnarlo a tutti gli studenti, descrivendolo come il linguaggio indispensabile per operare nella società digitale: «il coding è il nuovo inglese». Messaggio certamente semplice, ma che rispetto agli obiettivi da conseguire è inadeguato e fuorviante.

È inadeguato perché dovrebbe riferirsi all'apprendimento dell'informatica e non del solo coding, cioè della programmazione informatica, che è la parte più immediata e operativa. Ed è per questo fuorviante, perché se preso alla lettera, senza collocarlo nel giusto scenario, rischia di creare i nuovi proletari del futuro.

Entrerò adesso nel dettaglio della mia osservazione critica, che non vuole affatto svilire il coding ma inserirlo in una corretta prospettiva.

L'informatica è la disciplina scientifica che spiega i meccanismi base del funzionamento e della costruzione di quelle macchine digitali che sono ormai parte integrante della nostra vita. Come ben noto in qualunque settore tecnologico, la realizzazione di un macchinario, tranne il caso di dispositivi semplici o sia all’opera un creatore geniale, non avviene semplicemente cominciando a mettere insieme dei pezzi. L'esperienza di secoli ha mostrato che è necessario conoscere le basi scientifiche del dominio in cui si vuole creare la macchina, poi sapere come elaborare un progetto ingegneristico che porti alla specifica delle caratteristiche di ciò che si vuole ottenere ed alla definizione di come può essere fabbricato; infine, si passa alla realizzazione. Non c’è proprio altra strada poi, se si vuole industrializzare questo processo produttivo e renderlo ripetibile e di qualità garantita.

Parlare solo di coding è come dare scatoloni di sbarre, bulloni e piastre di ferro a qualcuno e poi dirgli di costruire qualcosa. Finché questo "qualcosa" è piccolo e semplice non ci sono problemi, ma se si vuole edificare un vero ponte serve qualcosa di più che la semplice abilità nel mettere insieme i pezzi.

Con la programmazione informatica, cioè il coding, si hanno a disposizione gli equivalenti digitali di sbarre, bulloni e piastre di ferro e non ci sono problemi nel costruire cose piccole e semplici. Anzi, è molto più facile che per ogni altra macchina, sia perché questi componenti di base sono immateriali, non pesano e non sono ingombranti, sia perché c'è a disposizione un gran numero di componenti anche abbastanza sofisticati che possono essere combinati senza sforzo. Negli ambienti moderni di coding, qualunque bambino può - ad esempio - realizzare applicazioni che adesso sono semplici ma che cinquant'anni fa erano alla portata solo di centri di avanguardia tipo la NASA: gli astronauti sono sbarcati sulla luna usando un sistema informatico di complessità inferiore a quelli che ci sono negli oggetti “smart” intorno a noi oggi. Nessun bambino, invece, può fabbricare da solo una Torre Eiffel, neanche oggi, pur avendo a disposizione tutte le sbarre, bulloni e piastre che vuole.

Vediamo adesso perché il semplice messaggio iniziale è fuorviante.

Perché da sempre, nella storia dell’umanità, il livello operativo della forza lavoro è stato quello più debole nei contrasti sociali e soggetto all’evoluzione tecnologica. Negli ultimi secoli, successivamente alla transizione da una società agricola ad una industriale, si è capito che l’istruzione è fondamentale per consentire a tutti una vita lavorativa soddisfacente nel tempo. Ed in effetti negli ultimi decenni, in tutti i Paesi avanzati, si insiste su durata e qualità della formazione scolastica e universitaria. Nell’Italia degli anni ’50 e ’60 i figli delle classi meno abbienti sono stati portati a studiare e laurearsi proprio in quest’ottica, che rimane quella corretta per la crescita sociale ed economica.

Siamo adesso nella fase di transizione da società industriale a società digitale. Le nuove macchine sono ben più sofisticate di quelle industriali, sono “macchine cognitive”, ma i problemi di base del lavoro rimangono. Anzi, con l’accelerazione del progresso tecnologico stanno già emergendo. La sofisticazione di quelle tecniche informatiche che vanno generalmente sotto il nome di “Intelligenza Artificiale” già rende possibile la produzione automatica di programmi informatici. Per ora questo accade in domìni ancora limitati in misura molto ridotta. Ma è una tendenza inarrestabile. È chiaro quindi che indicare solo il coding come obiettivo dell’istruzione in materia di competenze digitali rischia di mettere su una cattiva strada chi non conosce questi scenari. Senza fornire ai ragazzi una formazione a largo spettro sui vari aspetti dell’informatica, formeremo solo “operai digitali” che saranno i primi ad essere espulsi dal mercato del lavoro.

In quadro in cui questa visione strategica sia chiara si può benissimo parlare del coding, perché dopo tutto scrivere programmi informatici è un’attività fondamentale per imparare l’informatica. Così come saper fare le operazioni aritmetiche o calcolare l’area di figure geometriche sono passi fondamentali dell’apprendimento della matematica. Va quindi benissimo “fare coding”, soprattutto poi se questo aiuta ad avvicinare ragazze e ragazzi ad una materia che può dar loro molte soddisfazioni. Ma facciamo attenzione a come viene comunicato il messaggio!

È fondamentale insistere sull’importanza di una seria formazione scientifica sull’informatica fin dai primi anni di scuola. È la strada su cui diversi paesi avanzati si sono già avviati (p.es., USA, Regno Unito, Israele) e sulla quale la nostra comunità universitaria dell’informatica ha presentato al Ministero dell’Istruzione una proposta organica. Speriamo che il governo del cambiamento sia in grado di cogliere questa opportunità.

--
Versione originale pubblicata su "Il Fatto Quotidiano" il 20 febbraio 2019.

martedì 5 febbraio 2019

Una nuova politica dell’informatica nella Pubblica Amministrazione

di Enrico Nardelli

In questo articolo rifletto su uno degli elementi cruciali per la realizzazione di una Pubblica Amministrazione (PA) efficiente ed efficace. Si usa spesso a tal proposito il termine “trasformazione digitale”, che se da un lato ricorda l’urgenza di avere una PA adeguata alla società digitale, dall’altro ha secondo me il difetto di richiamare l’attenzione solo sul momento di transizione, mettendo in ombra la situazione a regime. Invece, come sarà più chiaro nel seguito, l’informatizzazione (termine che io preferisco) della PA, così come di ogni altra organizzazione, è un processo continuo, da affrontare in modo diverso da come fatto finora.

Vediamo perché. Venti anni fa, nel 1998, l’uomo della strada non usava né posta elettronica né reti sociali, e la tecnologia ci aveva dato il telefonino. Questo però non era niente altro che il caro buon vecchio telefono, solo che potevamo averlo sempre in tasca con noi dovunque andassimo.

Adesso è come se fossimo su un pianeta diverso, fatto di email, di tweet, di post, di password e di account e via storpiando la nostra bella lingua. Ma questa è solo la superficie. Sotto sotto, noi siamo sempre gli stessi esseri umani, tant’è che, “buoni” e “cattivi”, continuiamo a compiere le stesse azioni. I cattivi, soprattutto, hanno capito forse meglio dei buoni come fare le stesse cose in maniera più produttiva.

Invece, a livello di organizzazioni, questa esplosione della tecnologia digitale è stata enormemente più rivoluzionaria. Ha permesso di automatizzare funzioni un tempo alla portata esclusivamente del cervello umano, ma con il fondamentale tallone d’Achille di non avere la flessibilità e l’adattabilità dell’essere umano. Ho discusso altrove più in dettaglio questi aspetti.

Ciò che qui mi preme sottolineare è che una qualunque applicazione informatica è l’automazione di funzioni legate alle capacità cognitive della persona. Tipicamente, infatti, un’organizzazione acquisisce un sistema informatico per rimpiazzare, mediante un sistema automatico, facoltà cognitive precedentemente esplicate da una o più persone. Si individuano, una volta per tutte, quali sono le funzioni da automatizzare e queste vengono sostituite da un sistema informatico, cioè una “macchina cognitiva” che è la corrispondente, nella società digitale, alla macchina tradizionale della società industriale.

Questa sostituzione, come ogni automazione, avviene per migliorare la produttività, cioè aumentare l’output o diminuire i costi o entrambe le cose. Fin qui niente di male: l’automazione del lavoro è da secoli il fattore chiave che assicura un costante aumento di produttività.

Aver acquisito un sistema informatico vuol dire quindi aver sostituito ad una o più persone una o più “macchine cognitive”. Ma queste, senza capacità di adattamento, non sono in grado di evolversi per far fronte al mutare delle condizioni al contorno. Per questo l’acquisizione o lo sviluppo di un qualunque applicazione informatica deve seguire un percorso diverso.

È necessario cambiare prima di tutto il paradigma mentale con cui si affronta l’automazione informatica. Ogni organizzazione sa bene, quando assume un economista, un ingegnere, un legale o un contabile, che ciò che sa fare quella persona all’inizio non rimarrà immutato nel tempo, ma si evolverà, perché la persona imparerà sul campo tutta una serie di dettagli rilevanti per l’organizzazione stessa ed adatterà il proprio comportamento man mano che il suo scenario operativo si evolve. Ovviamente, all’inizio sotto la guida del suo responsabile, e poi sempre con maggiore grado di autonomia.

Se una parte di questo lavoro cognitivo viene trasferito a sistemi informatici, vengono meno questa flessibilità e capacità di evoluzione, che sono specifiche e caratterizzanti gli esseri umani. Non cambiare questo paradigma mentale vuol dire continuare a sprecare soldi con lo sviluppo di sistemi informatici.

Questo non accade perché la PA italiana sia particolarmente incapace. Gli USA sono spesso giustamente indicati come un modello di riferimento, ma la loro PA, rispetto alla realizzazione dei sistemi informatici è esattamente nelle nostre condizioni. Riprenderò questa situazione più avanti.

L’approccio quindi da usare è considerare l’acquisizione di un sistema informatico come l’acquisizione di una certa quantità di persone con certe competenze di base. Nessun selezionatore del personale si aspetta di trovare sempre “il candidato perfetto”, perché questa non è affatto la norma. Si cerca di trovare una persona col profilo sufficientemente buono per poter “scendere in campo” con efficacia e poi, da lì, evolversi.

Con i sistemi informatici bisogna adottare lo stesso approccio. Il che non vuol dire prendere il primo sistema che capita, ma far diventare parte del processo di acquisizione lo sviluppo incrementale e co-costruito (da utenti e sviluppatori, da committenti e fornitori) del sistema stesso. Esattamente come accade con i dipendenti. Tutti coloro che si occupano di queste problematiche sanno quanto sia complicato l’inserimento di una squadra di 10 dipendenti in un gruppo di 100, tanto più quanto maggiore è la componente cognitiva e non fisica delle attività svolte nell’organizzazione. Quando si digitalizza un processo aziendale si sta facendo sostanzialmente la stessa cosa. Perché dovremmo procedere in modo diverso? Se lo facciamo è perché non abbiamo capito che quella informatica è un’automazione radicalmente diversa da ogni altra e che richiede un approccio diverso.

Come si procede attualmente? Il tradizionale flusso di acquisizione di servizi e prodotti della PA italiana (ma in questo le PA sono sostanzialmente uguali in tutto il mondo) prevede una fase iniziale di definizione dei requisiti del servizio/prodotto necessario con la scrittura di specifiche di dettaglio, a fronte delle quali le aziende propongono offerte. La migliore (in base al costo più una componente di valutazione tecnica) vince ed il contraente inizia a realizzare quanto richiesto. Al termine, se il servizio/prodotto supera i test finali, si entra nella fase operativa.

Quali sono le conseguenze dell’attuale approccio? Sia nella PA italiana che nel resto del mondo, i programmi di sviluppo che prevedono la realizzazione di componenti software sono sempre quelli in maggior ritardo e con i maggiori sforamenti di costi. Recentemente, il direttore del Dipartimento Acquisti del Ministero della Difesa USA (il DOD), Will Roper, ha dichiarato che il sistema di acquisizione tradizionale usato per decenni per comprare navi ed aeroplani, “non funziona per il software” perché “un sistema software non è mai finito, è un processo continuo”.

Le aziende informatiche più innovative al mondo hanno da tempo capito che questo metodo non funziona. Se gli utenti vedono il software solo alla fine, è altamente probabile che non solo i requisiti inizialmente definiti non saranno stati soddisfatti ma anche che ciò di cui hanno bisogno è nel frattempo cambiato. Dalla collaborazione tra il mondo della ricerca e quello dell’industria è emerso da circa una ventina d’anni un approccio radicalmente diverso allo sviluppo del software, l’approccio cosiddetto “agile” (anche in inglese il termine è lo stesso, solo pronunciato diversamente), che è quello appunto usato dalle aziende informatiche all’avanguardia, perché consente loro di sviluppare servizi/prodotti di successo.

D’altro canto, se ci pensate bene, questo è quello che vediamo nelle App di successo che tutti noi usiamo ogni giorno. A noi sembrano sempre le stesse, ma dietro la facciata c’è un lavorìo continuo di aggiornamento ed evoluzione. Appunto, come accade con le persone che, dietro la facciata di un’organizzazione, ci forniscono i suoi servizi. Si evolvono al cambiare delle condizioni al contorno o in funzione di un’eventuale cambiamento deciso dalla direzione. Nel mio articolo di quasi dieci anni fa citato all’inizio avevo scritto, a proposito dello sviluppo dei sistemi informatici: “la manutenzione è la vera implementazione”.

È quindi necessario un radicale cambiamento di paradigma che, ripeto, dev’essere soprattutto un cambiamento mentale.

Da un punto di vista procedurale, l’acquisizione di sistemi informatici non dovrà più, quindi, essere basata sulla definizione iniziale di tutti i requisiti, ma andrà individuato un ristretto insieme di obiettivi e casi d’uso iniziali, sui quali un piccolo gruppo congiunto di sviluppatori e utenti inizierà a lavorare con il compito di produrre un primo nucleo funzionante nel giro di qualche settimana. Da lì in avanti si continua con questo approccio iterativo, che è appunto quello definito “agile”, imparando costantemente da successi ed errori sul campo ed aggiustando il tiro in funzione dell’evolversi degli scenari.

È un cambiamento epocale se si considera l’acquisizione di un sistema software alla stregua di un qualunque altro prodotto. È la soluzione naturale, se la guardiamo nell’ottica dell’acquisizione di personale.

È evidente che questo nuovo paradigma di acquisizione non potrà mai essere adottato dalla PA italiana se non è in accordo con il contesto legale di riferimento. Sarà quindi necessario cambiare l’intero apparato regolamentare che disciplina le procedure con le quali la PA acquisisce sistemi informatici. Qui è necessario uno sforzo fortemente interdisciplinare, perché vanno mobilitate tutte le competenze che entrano in gioco in questo processo: giuridiche, documentarie, informatiche, gestionali, psicologiche, sotto la guida – va da sé – di una politica che deve farsi carico in prima persona della risoluzione di problemi annosi.

Non è un processo breve, richiederà molti anni, ma potrebbe essere un progetto di legislatura volto a lasciare agli Italiani un Paese migliore.

Versione originale pubblicata su "Agenda Digitale" il 31 gennaio 2019.