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sabato 4 dicembre 2021

La trasformazione digitale e il Titanic

di Enrico Nardelli

Letto il titolo avrete sicuramente pensato: «Ma che c’azzecca?», per usare un’espressione informale e anortografica che era molto di moda qualche decennio fa. Qualche minuto di pazienza e lo scoprirete.

Penso ormai tutti sappiate che il nostro Paese, come molti altri in Europa, è impegnato nella messa in cantiere e nel varo di una congerie di progetti finanziati dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), sostenuti da parecchie decine di miliardi di euro che riceveremo dalla Commissione Europea.

Osservo, en passant, che questi fondi sui quali c’è grandissima attesa sono sostanzialmente prestiti e, in quanto tali, andranno restituiti con delle condizioni che, dice qualche economista fuori dal coro, sono complessivamente per il nostro Paese più gravose di quelle che avremmo potuto ottenere rivolgendoci direttamente ai mercati e decidendo noi le priorità. Non è il mio settore, quindi mi astengo dal giudizio: il futuro ci dirà chi aveva ragione.

È anche generalmente noto che due priorità che la Commissione ha fissato sono quelle della transizione verde e della trasformazione digitale. Mi soffermo sulla seconda, data la mia competenza ed esperienza. Ho già espresso alcune riflessioni su come il nostro PNRR ha pianificato il processo di transizione digitale. Estendo adesso quelle considerazioni, nella speranza di far capire l’importanza di correggere la rotta su alcuni aspetti che ritengo fondamentali.

Questa onnipresente tecnologia digitale, che intermedia sempre di più tante relazioni umane, si presenta, davanti alla navigazione del nostro Paese nell’oceano della ripresa, come un iceberg (o un borgognone, come scrive Cesare Pavese nella sua spettacolare traduzione del Moby Dick). Ne vediamo la parte emergente, quella costituita, come illustrato nella figura sottostante (un mio adattamento di un’idea di Simon Peyton-Jones), dalle applicazioni che ormai praticamente tutti usiamo quotidianamente.

La nostra Nave sta cercando di affrontarla e superarla, ma sta, in buona sostanza, facendo attenzione solo ciò che si vede davanti agli occhi, focalizzandosi sull’insegnare a tutti le competenze operative. Operazione indispensabile, ma che da sola non è sufficiente, sul lungo periodo, soprattutto perché gli strumenti in questo settore cambiano molto velocemente.

Trascurare ciò che sta sotto la superficie, lo sviluppo della tecnologia informatica, compito generalmente svolto dagli ingegneri – che trasformano le idee in realtà, ci porta a non possederne il controllo, col risultato che se poi dispositivi e sistemi deviano dal comportamento previsto, perché chi li ha realizzati lo ritiene opportuno per i suoi scopi, siamo costretti ad adeguarci o a subire costi non secondari per passare ad usarne altri. Abbiamo quindi bisogno di formare chi sappia progettarli e costruirli, sulla base delle nostre esigenze, e di influire sulle direzioni di sviluppo.

Trascurare, inoltre, ciò che è alla base di tutto, cioè la conoscenza diffusa dei concetti fondamentali – che sono enormemente più stabili di ciò che si vede galleggiare, fa sì che i cittadini non siano pienamente consapevoli di tutti gli aspetti in gioco nella società digitale e non riescano a partecipare attivamente alla sua evoluzione. Come effetto consequenziale, ma non per questo meno rilevante, ne risulta un numero insufficiente di studenti, ed ancora di più di studentesse, che decide di proseguire gli studi all’Università nei settori scientifico-tecnologici dell’informatica.

È un aspetto questo che, ormai quasi una decina di anni fa, gli Stati Uniti hanno capito perfettamente. Nel 2014 l’allora presidente Obama girò il video che esortava tutti gli studenti americani ad imparare l’informatica «per mantenere il Paese all’avanguardia». Da quel momento, tutti e 50 gli stati USA hanno implementato politiche miranti ad diffondere nella scuola lo studio dell’Informatica. Sottolineo che la materia che è stata introdotta non è il coding, cioè la semplice programmazione dei calcolatori, ma proprio la computer science, la disciplina scientifica che noi chiamiamo informatica, che loro ritengono essenziale per costruire un’educazione bilanciata ed adeguata al XXI secolo. Per questo, l’hanno messa sullo stesso piano delle discipline più tradizionali, quali la madrelingua, la matematica e le scienze. I risultati stanno arrivando. Ormai nel 30% delle scuole elementari di tutti gli stati USA si insegna l’informatica (ricordo che è una decisione di competenza di ogni singolo stato) ed il numero delle ragazze che scelgono, alla fine della secondaria, l’esame AP di informatica (che è un indicatore attendibile dell’interesse verso la disciplina negli studi universitari) è raddoppiato.

Formare le persone nella cultura scientifica alla base della trasformazione digitale è un fattore strategico per qualunque nazione. La vitalità ed il successo di un paese democratico in un futuro sempre più digitale dipenderanno in larga misura dal livello di cultura informatica dei suoi cittadini. Gli Stati Uniti l’hanno capito.

Sappiamo tutti, dalla sfortunata vicenda del Titanic – appunto – come rischia di andare a finire per il nostro Paese se non facciamo attenzione a ciò che sta sotto la superficie.

Ho approfondito questi temi nella relazione invitata “Cittadinanza nello Stato digitale” che ho tenuto martedì 30 novembre al Politecnico di Torino per l’apertura della 13° conferenza del Nexa Center for Internet and Society. Potete vedere il mio intervento qui.

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Versione originale pubblicata su "Key4Biz" il 29 novembre 2021.

venerdì 15 ottobre 2021

Informatica e sistema produttivo: quindici anni dopo

di Enrico Nardelli

Quindici anni fa, quando ero il presidente del GRIN (l'associazione italiana dei professori e ricercatori universitari di informatica), organizzai insieme al GII (l'omonima associazione per l'ingegneria informatica) un convegno presso la Camera dei Deputati dal titolo "Informatica, cultura e società". La parola d'ordine europea a quel tempo era "Società della conoscenza", erano imminenti nel nostro Paese le elezioni politiche e la nostra comunità voleva spingere la politica a fare finalmente i conti con la necessità di utilizzare l'informatica per favorire lo sviluppo economico. Gli atti sono stati pubblicati qui.

I governi sono arrivati e se ne sono andati, le parole d'ordine son cambiate, adesso si parla di "trasformazione digitale", ma l'informatica continua a rimanere sostanzialmente assente dai programmi di sviluppo del nostro Paese. Se non fosse per l'intelligenza artificiale, per la quale – non fosse altro perché ne parlano tutti nel mondo – ci sono un po' di investimenti, avremmo davvero una desolazione cosmica, simile a quella in cui viaggiano le sonde Voyager che abbiamo inviato decenni fa nello spazio profondo alla ricerca di eventuali civiltà extraterrestri.

Essendo stato educato su basi classiche, anche se poi ho studiato da ingegnere, so bene che, come ha scritto George Santayana (scrittore e filosofo spagnolo del secolo passato), «chi non ricorda il passato è condannato a ripeterlo». Per questo, approfittando della tecnologia digitale che non dimentica niente e permette di cercare molto più facilmente che scartabellando in un archivio cartaceo, di tanto in tanto riprendo in considerazione vecchi appunti.

Tra le carte risalenti all'epoca di quel convegno ho quindi ritrovato la nota, mai pubblicata, che riproduco integralmente nel seguito. Si sente che il tempo è passato, perché alcune espressioni ormai non si usano più. D'altro canto, invece, sono da un lato lieto di constatare che i concetti espressi hanno resistito alla prova del tempo, e dall'altro addolorato al pensiero che non è accaduto nulla di quanto ritenevo necessario. Il risultato netto è che il nostro Paese ha perso inutilmente molti anni, e che stiamo lasciando ai nostri figli un futuro peggiore di quello i nostri genitori hanno preparato per noi. Hanno contribuito anche altri fattori, ovviamente, a determinare la situazione attuale, ma questo mi sta particolarmente a cuore, essendo quello della mia attività professionale.

Chiudo qui il preambolo e lascio parlare il me stesso del 2006, senza cambiare una virgola.

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La società in cui viviamo viene comunemente definita la Società della Conoscenza, perché il sapere è sempre più essenziale nel lavoro e nell'economia. Il sapere è però un concetto complesso e con molte sfumature. Esso è tradizionalmente posseduto e reso operativo gli esseri umani, i quali lo detengono nei suoi costituenti statici (dati, fatti, relazioni, ...) e dinamici (procedure, finalità, motivazioni, ...).

Negli ultimi cinquant'anni del secolo scorso, partendo da uno dei più antichi filoni della matematica, la scienza dell'informatica ha cominciato ad investigare in modo sempre più intenso ed approfondito gli elementi formali e strutturati del sapere e della conoscenza, con lo scopo di capire cosa poteva essere realizzato in modo automatico.

In questo suo cammino ha avuto presto a disposizione un'evoluzione tecnologica impensabile ed incomparabile con quella di qualunque altro settore della conoscenza umana. è diventato possibile rappresentare enormi quantità di dati ed eventi a costi irrisori; realizzare dispositivi automatici in grado di eseguire complicatissime procedure che, con velocità esponenzialmente sempre maggiori, analizzano tali dati e le loro relazioni; connettere tali dispositivi in sistemi via via più complessi ed interconnessi, che ormai avvolgono l'intero pianeta e sono a disposizione di larga parte (anche se molta ne è ancora esclusa) dell'umanità. Analizzando più attentamente la situazione, però, ci si rende conto che tali dispositivi e tali sistemi sono ‘meccanici’ nel senso più assoluto del termine, perché richiedono una completa, minuziosa e specifica descrizione di ciò che devono realizzare, dal momento che non sono in grado di capire e di apprendere nel modo con cui apprendono i piccoli del genere umano.

Da questo stato di cose nascono le sempre maggiori difficoltà dell'utilizzo dell'informatica in qualunque struttura sociale organizzata: perché queste sono fatte di donne e uomini in grado di usare intuizione ed esperienza per dare un senso – a qualunque livello di governo essi siano – a regole e procedure delineate nei loro passi essenziali ma non dettagliatamente esplicitate per trattare tutti i casi possibili. Poiché invece i sistemi informatici non hanno questa capacità, dispiegarli bene nel contesto di una qualunque organizzazione, anche piccola, è un compito molto più complicato dell'inserire in essa nuove persone.

All'inizio è stato molto facile: si è trattato di usare i calcolatori per ordinare dati e fatti sulla base di semplici criteri, per trovare in questi insiemi elementi che soddisfacessero specifiche ed esplicite condizioni, per trasferirli da una parte all'altra secondo protocolli ben definiti, per calcolare dati di sintesi o di previsione mediante formule matematiche.

Negli ultimi quindici-venti anni la rete di comunicazione che ha avvolto il globo ha messo (quasi) qualunque dato a disposizione di (quasi) qualunque essere umano, perlomeno in potenza. Ma l'analisi, la comprensione e la decisione rispetto all'enorme mole di questi dati sono ancora attività specifiche degli esseri umani. Analogamente, all'interno di qualunque organizzazione, si possono ormai facilmente raccogliere dati su qualunque elemento del suo funzionamento, ma cosa-quando-perché elaborarli deve essere esplicitato fin nei suoi più minimi dettagli affinché la risposta fornita da un calcolatore sia usabile.

Questo compito non è facile, richiede tempo e pazienza, molto più di quanti non ne sarebbero necessari se al posto di un calcolatore usassimo un essere umano. Ma allora perché dovremmo usare i calcolatori? Perché sono più veloci (enormemente più veloci) e non commettono – per quanto attiene a loro – errori (mai, ma proprio mai), e questo ha un enorme valore economico. Riuscire a farlo appropriatamente è la sfida che in questi anni ogni società avanzata si trova ad affrontare. L'elemento chiave è capire che quanto si sta facendo non è la semplice sostituzione del contabile che calcola le somme del bilancio annuale con una macchina più veloce, ma è la molto più difficile sostituzione dell'essere umano che non si blocca di fronte ad una pratica od un oggetto fuori posto ed è in grado di capire quando un caso eccezionale è un errore, una truffa o un evento importante.

Uno degli elementi culturali determinanti nel causare lo sgonfiamento della bolla della new economy è stato che la gente aveva – erroneamente – pensato che “enorme potenza di calcolo” più “larghissima capacità dei canali di telecomunicazione” dessero automaticamente come somma una nuova “età dell'oro”. Ma questa somma è vera solo se tutti gli attori sono dispositivi tecnologici, non se sono coinvolti gli esseri umani. Infatti, nel mondo delle telecomunicazioni, dove sono solo macchine ad interagire per portare dati da un punto ad un altro, il futuro è già tra noi. In venti anni abbiamo dato a (quasi) ogni abitante del mondo industrializzato una scatoletta del peso di pochi grammi con la quale può mettersi in comunicazione con (quasi) ogni altro abitante della stessa parte del mondo, a costi irrisori rispetto alle distanze coinvolte. Ma poi, se questi esseri umani sono i componenti di una stessa organizzazione, quest'innovazione tecnologica li mette certamente in grado di lavorare insieme anche se sono fisicamente distanti, anche di scambiarsi documenti e di lavorarci sopra collettivamente (grazie alle reti ed alla posta elettronica) ma il cosa-come-perché della manipolazione di questi dati e documenti è in gran parte ancora nelle loro teste.

L'organizzazione e la formalizzazione di questo sapere in sistemi informatici che siano in grado di aiutare donne e uomini nelle loro decisioni, semplificando e migliorando i processi produttivi in cui essi operano, non sono né semplici né veloci, e richiedono soprattutto un cambiamento culturale. Cioè quello di capire che l'informatica non è solo il calcolo o la rete di comunicazione, ma una componente importante del modo di lavorare. Non è solo la disponibilità di tanti computer e di connessioni veloci ad Internet, ma la capacità di integrare queste ‘stupide’ ed ‘ottuse’ componenti tecnologiche in un processo ‘intelligente’ nel quale gli esseri umani devono essere supportati ed accompagnati ma non ostacolati e asserviti alle macchine, nel quale l'organizzazione deve essere alleggerita e snellita per acquisire più potenza per il raggiungimento dei suoi fini. Ed è, infine e non meno importante, la capacità di capire che questa innovazione tecnologica è così dirompente che se non viene introdotta e fatta crescere gradualmente, insieme alla comprensione culturale di essa da parte di chi ci interagisce, e sempre in accordo con i bisogni e le finalità dell'organizzazione, essa non realizzerà mai le sue splendide promesse.

Diffondere la cultura dell'informatica ed il suo corretto utilizzo è quindi uno degli interventi strategici necessari per ridare competitività al sistema italiano.

Essenziale, ai fini di questa strategia, è l’intervento nell’ambito della Pubblica Amministrazione. Negli ultimi quindici anni sia i governi centrali che quelli locali hanno infatti speso molto per introdurre innovazione nell'ambito delle tecnologie dell'informazione. Con quanto successo è difficile giudicarlo. Un elemento di criticità è che ‘innovazione’ è un termine molto alla moda, ma viene spesso utilizzato in modo distorto. Tutti la vogliono promuovere, ma pochi si rendono conto che quella che effettivamente interessa alla società è l'innovazione intesa come meta, non come strumento in sé e per sé. In quanto tale, il suo successo può essere effettivamente giudicato solo a posteriori. Nel divenire, è solo un cambiamento e poiché sappiamo che cambiare ha comunque dei costi, siamo giustamente sospettosi. Un prodotto o un servizio possono essere tecnologicamente molto innovativi ma fallire completamente il vero fine dell'innovazione: essere utile alle persone e rendere la società migliore. Le pubbliche amministrazioni centrali e locali hanno in questi ultimi anni certamente migliorato la loro tecnologia informatica. Ma i casi in cui ciò ha prodotto innovazione che ha migliorato effettivamente la vita dei cittadini sono molto pochi.

Ci sono ovviamente, soprattutto a livello centrale, problemi di complessità e di dimensioni. Ci sono, a tutti i livelli, problemi culturali: si presume, poiché sono stati acquisiti nuovi sistemi informatici, che tutto funzionerà meglio. I politici non riescono ad afferrare bene come l'informatica e le sue tecnologie cambiano la società e le organizzazioni e cedono alle suggestioni delle componenti tecnologiche ed industriali. Così si spendono molti soldi ma dell'innovazione che interessa al cittadino se ne vede molto poca. Se il cittadino fosse un imprenditore e misurasse il tasso di ritorno relativo questo investimento che è stato realizzato negli ultimi quindici anni con i soldi delle sue tasse, avrebbe dovuto già da tempo licenziare il management. Ma ci ritroveremmo praticamente senza politici, di nessun colore.

E' allora necessario che i politici capiscano che la rivoluzione informatica avrà una portata ben maggiore di quella della rivoluzione industriale che così profondamente ha trasformato il mondo nell'ottocento. Perché quella esercitava i suoi effetti essenzialmente sulle capacità fisiche dell'essere umano, mentre questa influenza la sfera delle attività cognitive, che sono quelle che fanno degli uomini ciò che sono. Successivamente bisogna intervenire perché questa comprensione sia calata nella pratica operativa e nell'organizzazione della pubblica amministrazione. Infine, è indispensabile trasformare tale consapevolezza in cambiamenti tecnologici miranti a dare più efficacia alle finalità istituzionali e misurare quantitativamente la portata dei vantaggi eventualmente ottenuti. Bisogna che i sistemi informatici siano considerati, come avviene nel settore privato ormai da almeno dieci anni, altrettanto essenziali dei sistemi amministrativo-contabili per il controllo e il governo di un'organizzazione. Così come la strutturazione e la direzione dei flussi economici disegnano i rapporti e le relazioni aziendali, altrettanto accade per i flussi informatici. La pubblica amministrazione deve far crescere al suo interno ruolo e importanza del sistema informatico ed usarlo sinergicamente con gli altri sistemi di governo aziendali per ottenere flessibilità, efficienza dei processi ed efficacia verso i cittadini. Un buon nucleo di competenze è già presente, sia a livello centrale che locale, ma bisognerà adeguatamente irrobustirlo, agendo anche in cooperazione con tutte le forze sociali competenti e disponibili, se si vuole davvero raggiungere questi obiettivi.

Intervenire in questo senso sulla pubblica amministrazione è essenziale per la crescita dell'Italia. Prima di tutto perché focalizzarsi sui risultati è l'unico approccio corretto per misurare se il miglioramento tecnologico davvero produce l'innovazione di cui il cittadino ha bisogno o no. Poi perché la pubblica amministrazione è uno dei mercati più grandi dell'intero settore dell'Information Technology ed è quello su cui la politica riesce ad intervenire in modo più diretto. La pubblica amministrazione è per il politico come la propria azienda per il top-manager. Anche il politico, infatti, deve rispondere ai suoi "azionisti", cioè i cittadini, e può intervenire direttamente su come lavora e come funziona la sua struttura.

La pubblica amministrazione, per le sue dimensioni e la sua centralità rispetto al sistema paese, è una componente essenziale per determinare il futuro dell'Italia e potrebbe costituire l’obiettivo strategico in grado di guidare e favorire lo sviluppo nel prossimo futuro.

Si tenga inoltre presente che al momento attuale la produzione italiana nel settore dell’informatica è praticamente rivolta tutta al mercato interno. Il nostro paese, caso unico fra tutti i Paesi del G7, non esporta quasi per niente software. Da questo punto di vista l’Italia è una fortissima anomalia, l’unico assente tra tutti i paesi con un’economia fortemente industrializzata. Questa situazione, che in sé e per sé appare drammatica, sul piano industriale, può però essere ottimisticamente considerata un’opportunità. È chiaro infatti che l’informatica è per l’Italia un settore che offre un’enorme spazio di crescita sui mercati internazionali, una grande opportunità di espansione economica. Il problema è che un’industria italiana del software non si improvvisa da un giorno all'altro. Certamente vanno prese misure da subito in tal senso. Però quello che richiederà molto tempo, perché è un problema di formazione ed assimilazione di nuovi concetti nella testa delle persone, è la reale e profonda consapevolezza da parte della classe dirigente del paese delle capacità e delle opportunità dell'informatica. Questa è una carenza di tipo culturale che richiede interventi di lungo respiro.

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Chi mi ha seguito fin qua, avrà avuto modo di sviluppare le sue riflessioni..

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Versione originale pubblicata su "Key4Biz" l'11 ottobre 2021.

venerdì 23 luglio 2021

La carica degli apprendisti stregoni ovvero il “comma 22” del voto elettronico

di Enrico Nardelli

Il mio recente articolo, nel quale esprimevo un parere chiaramente negativo rispetto all’utilizzo del voto elettronico per le votazioni politiche generali, ha suscitato qualche “mal di pancia” e alcune incomprensioni.

Chiarisco subito che ho il massimo rispetto per i tanti imprenditori che vogliono cogliere l’opportunità dei forti investimenti sulla digitalizzazione che il nostro Paese dovrà fare nei prossimi anni e spero che, finalmente, grazie a questi investimenti si sviluppi un’industria italiana del software che ci liberi dalla schiavitù dell’utilizzo di sistemi pensati e progettati all’estero e da lì controllati.

Temo però che non si colga appieno la particolare delicatezza dell’utilizzo della tecnologia digitale in un processo elettorale, rendendola assolutamente sconsigliabile. Non basta fare appello alle migliori risorse di sicurezza informatica del nostro Paese per mettere a punto – attraverso sperimentazioni e verifiche – un processo tecnico-organizzativo che superi certe criticità. Non è così semplice.

Chi non è più tanto giovane ricorderà lo sforzo che gli Stati Uniti avviarono agli inizi degli anni ‘80 sotto la presidenza Reagan per realizzare il cosiddetto “scudo stellare” (SDI = Strategic Defense Initiative). Uno dei massimi esperti accademici di ingegneria del software coinvolto nel progetto, David Lorge Parnas, consulente di fiducia dei progetti di difesa degli USA, si ritirò dall’SDI nel giugno 1985 argomentando pubblicamente, su basi tecnico-scientifiche, che il progetto non avesse alcuna possibilità di raggiungere i suoi obiettivi.

Nonostante nei quasi quarant’anni passati l’ingegneria del software abbia fatto enormi passi avanti in termini di metodi e tecniche, i progetti di sviluppo e aggiornamento dei sistemi software continuano a fallire in quantità effettivamente imbarazzante rispetto ad ogni altra branca dell’ingegneria. Qui una rassegna recente relativa al Regno Unito, ma – come si dice – tutto il mondo è paese. Questo non vuol dire smettere di fare ricerca in questo settore, tutt’altro, la ricerca è necessaria per migliorare tale situazione. Però è necessario essere ben consapevoli che nella realizzazione dei sistemi informatici siamo enormemente lontani da quell’affidabilità che consente a tutti di salire su un aeroplano con la più che ragionevole certezza di atterrare sani e salvi.

E la situazione che Parnas criticava negli anni ’80 è nel frattempo stata resa più complicata dall’ubiquità di Internet e dei dispositivi di calcolo personali ad essa connessi. L’impossibilità di dimostrare matematicamente il corretto funzionamento di un sistema software (quando invece qualunque ingegnere di qualunque settore rilascia un progetto essendo matematicamente sicuro che se l’artefatto viene realizzato ed usato secondo quanto progettato andrà tutto bene), accoppiata alla necessità (che ho illustrato nel precedente articolo) di dover verificare tutti i componenti e tutti i sistemi coinvolti nel processo, rende lo scenario intrattabile.

I proponenti delle soluzioni per il voto elettronico insistono sul dire “sperimentiamo e verifichiamo” in modo da essere assolutamente sicuri. Nel caso dello “scudo stellare” non esistevano situazioni realistiche per verificare il sistema che non fossero quelle di un reale attacco missilistico russo. Ma ovviamente non ci si poteva esporre ad un simile rischio senza la sicurezza del funzionamento del sistema. Una situazione, appunto, da “Comma 22”, il romanzo di Joseph Heller, in cui ad un certo punto si enuncia questo comma per poter essere esentati dai combattimenti: «Chi è pazzo può chiedere di essere esentato dalle missioni di volo, ma chi chiede di essere esentato dalle missioni di volo non è pazzo».

Lo stesso accade per il voto elettronico. L’unico test realistico sarebbe quello del voto. Ma non si può mettere in pericolo il futuro di un Paese come l’Italia: ricordiamo che le elezioni politiche generali assicurano il governo della Nazione per cinque anni, in cui maggioranze sufficientemente forti possono cambiare tutte le leggi che vogliono ed anche stravolgere la Costituzione. Ora, se questo davvero avviene per volontà popolare, nulla da dire, ma se ciò invece accade per qualche broglio tecnologico, ritengo che sia da pazzi correre un simile rischio. Ed il punto fondamentale è che tutti i cittadini devono poter essere sicuri che è davvero il popolo sovrano che si è espresso, e non qualche burattinaio più o meno lontano.

Questo argomento della “fiducia dei cittadini nell’intero processo elettoraleè, purtroppo, spesso ignorato dai tecnologi. Scrivevo, nel mio precedente articolo, che «con la scheda cartacea nell’urna tutto è semplice, verificabile e comprensibile da chiunque». Lo stesso non è vero con il voto elettronico. Non si tratta di una mia osservazione particolarmente originale: colleghi che in tutto il mondo si occupano di questi temi l’hanno più volte espressa. Ciò che non sapevo (e ringrazio Roberto Di Cosmo per avermelo segnalato) è che lo stesso tipo di argomento è stato utilizzato nel 2009 dalla Corte Costituzionale tedesca per sancire la non costituzionalità in Germania del voto elettronico. Potete trovare online il comunicato stampa in inglese ed anche la traduzione in italiano del comunicato e dell’intera sentenza, curata dal Comitato per i Requisiti del Voto in Democrazia, il Centro Hermes per la Trasparenza e i Diritti Umani Digitali e il Progetto Winston Smith, tre organizzazione italiane particolarmente attive in tema di diritti digitali che invito a seguire.

Per chi va di fretta riporto la mia traduzione delle argomentazioni centrali. «Il principio della natura pubblica delle elezioni, …, prescrive che tutti i passi fondamentali di un’elezione siano soggetti alla possibilità di controllo pubblico, a meno che altri interessi costituzionali giustifichino un’eccezione». A tal proposito, la Corte Costituzionale tedesca ha osservato che l’uso di dispositivi digitali risponde a tale prescrizione «solo se i passi essenziali della votazione e della determinazione del risultato possono essere esaminati in modo affidabile e senza alcuna conoscenza specialistica».

Ha inoltre aggiunto «Mentre in un’elezione convenzionale, con schede elettorali cartacee, le manipolazioni o le frodi elettorali sono, …, possibili solo mediante uno sforzo considerevole e con un elevato rischio di essere scoperti, il che ha un effetto deterrente, gli errori di programmazione nel software o frodi elettorali commesse deliberatamente alterando il software o le macchine di voto elettronico possono essere scoperti solo con difficoltà».

Pertanto «sono necessarie precauzioni speciali per salvaguardare il principio della natura pubblica delle elezioni» e quindi «I votanti stessi devono essere in grado di comprendere, senza alcuna conoscenza di dettaglio della tecnologia digitale, se i voti che hanno espresso sono stati registrati in maniera fedele». Infine «Anche un esteso insieme di misure di sicurezza organizzative e tecniche non è da solo adatto a compensare la mancanza della possibilità per i cittadini di esaminare i passi essenziali della procedura elettorale» dal momento che «una fiducia giustificata nella regolarità delle elezioni» è possibile solo se «i cittadini stessi sono in grado di ripercorrere in modo affidabile i passi fondamentali della votazione».

È inoltre interessante osservare che, nella stessa sentenza del 3 marzo 2009, la Corte Costituzionale tedesca ha osservato che «non è richiesto dalla costituzione che i risultati delle elezioni siano disponibili subito dopo la chiusura dei seggi» e che le elezioni precedenti «hanno evidenziato che anche senza usare macchine per le votazioni i risultati ufficiali provvisori sono in genere disponibili dopo poche ore».

Io credo che l’Italia non sia seconda a nessuno in termini di creatività e capacità realizzative, per cui spesso sorrido quando si portano paesi stranieri ad esempio per indicarci come dovremmo fare le cose. Però, in questo caso, mi piacerebbe che i molti che spesso guardano alla Germania come ad un esempio da imitare fossero coerenti con sé stessi. La fiducia nel sistema elettorale è un pilastro fondamentale di ogni paese democratico, incrinarla vuol dire giocare col futuro del paese stesso.

Veniamo quindi all’altro argomento usato da chi spinge per l’introduzione del voto elettronico: il fatto che così si combatte l’astensionismo. Bisogna purtroppo dire che allo stato attuale della conoscenza, le ricerche fatte in quest’ambito non sostengono tale conclusione. Il lettore interessato può consultare il recentissimo articolo pubblicato sul Journal of Cybersecurity per un’interessante rassegna. Ricordo che uno degli autori è Ronald Rivest, uno degli inventori di quella crittografia a chiave pubblica che è alla base della sicurezza delle transazioni sulla rete. Tale articolo ricorda che uno studio realizzato in Svizzera con votazioni reali, per più anni (2003-2016 per il cantone di Ginevra e 2005-2011 per quello di Zurigo), non ha mostrato alcun impatto sulla partecipazione. Uno studio del 2014 relativo al Belgio ha evidenziato un leggero decremento. Uno studio canadese del 2020 ha evidenziato un leggero incremento concludendo, però, che «non era la soluzione per aumentare la partecipazione al voto». Studi sulle elezioni in Estonia hanno evidenziato che l’incremento di partecipazione era proporzionale al livello economico e di istruzione. Il pericolo quindi, di perdita di interesse al voto da parte di alcune fasce della popolazione è reale.

Soprattutto, dato lo stato corrente della sicurezza informatica, dove la diffusione di malware, lo sfruttamento di difetti zero-days, e gli attacchi denial-of-service sono all’ordine del giorno, qualunque eventuale aumento di partecipazione al voto deve essere confrontato con la perdita della sicurezza che i voti espressi dai cittadini siano contati tutti correttamente. Diversamente da altre infrastrutture in cui i rischi di frodi o di malfunzionamenti – che accadono regolarmente – sono tenuti presenti, gestiti e contabilizzati, nel processo elettorale non esiste nessuna assicurazione o compensazione per un’elezione compromessa. Nella situazione attuale, considerando il peso e la collocazione del nostro Paese, far votare i cittadini con meccanismi digitali sarebbe come inviare in guerra soldati con un coltello in mano a combattere contro un carro armato.

In conclusione, le evidenze per stare alla larga dal voto elettronico ci sono tutte. Un detto attribuito ad Einstein (che pare invece sia nato nella comunità degli alcolisti anonimi) recita «La pazzia è il ripetere le stesse cose aspettandosi risultati diversi».

Sono convinto che sapremo resistere alle sirene della follia.

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Versione originale pubblicata su "Key4Biz" il 19 luglio 2021.

martedì 20 luglio 2021

Gli apprendisti stregoni del voto elettronico

di Enrico Nardelli

A novembre 2020 mi interrogavo sull'esistenza/non-esistenza di un comitato che stava lavorando sul voto elettronico. C’è ora la certezza che in effetti il comitato esisteva, dal momento che ha prodotto – in data 25 maggio 2021 – delle “Linee guida per la sperimentazione del voto elettronico”, che successivamente il Ministero dell’Interno e il Ministro per l’Innovazione Tecnologia e la Transizione Digitale hanno approvato con decreto del 9 luglio 2021.

In situazioni di questo genere, in cui si vanno a toccare meccanismi fondamentali per la democrazia, è buona prassi esporre le proposte di cambiamento alla consultazione pubblica, al duplice scopo di verificarne la qualità e di ottenere eventualmente suggerimenti migliorativi. Lo fa normalmente anche la Commissione Europea. In questo caso, un comitato, dei cui lavori si è saputo poco o niente, ha definito delle linee-guida per cambiare le modalità di voto, sulle quali nessuno ha potuto fare osservazioni prima che venissero recepite in un decreto interministeriale.

Visto che non risultano verbali dei lavori di questo comitato non si può dire se le autorità nazionali di sicurezza informatica siano state coinvolte nella definizione di tali linee guida. Il decreto, bontà sua, indica che dovranno esserlo nella predisposizione dello studio di fattibilità e dei requisiti tecnici. Meglio di niente, certamente, ma non mi pare il massimo della trasparenza per un tema così importante per la democrazia.

Nel mio articolo di novembre 2020 ricordavo le tante perplessità esistenti in tutto il mondo sul voto elettronico, riallacciandomi ad una precedente inchiesta di Nicola Biondo. La situazione a livello internazionale è abbastanza chiara. In Europa, con l’unica eccezione dell’Estonia (una nazione che ha meno della metà degli abitanti del comune di Roma e che ha avuto alcuni problemi, vedi qui e qui), il voto elettronico è generalmente evitato. In diversi paesi europei, Germania, Svizzera, Norvegia e Olanda, è stato tassativamente escluso. Negli Stati Uniti, la culla del digitale, il Paese che grazie all’informatica ed alle sue tecnologie sta dominando e controllando il mondo attraverso le sue multinazionali, ad aprile del 2020 è stata pubblicata una lettera aperta indirizzata a Governatori, Segretari di Stato, Direttori degli Uffici Elettorali, di tutti e 50 gli stati americani, dove si conclude che «la votazione via Internet non è una soluzione sicura per votare negli Stati Uniti, né lo sarà in un prevedibile futuro». La lettera (basata su vent’anni di analisi ed evidenze scientifiche) è stata preparata dal Centro per l’Evidenza Scientifica nelle Questioni Pubbliche, un centro studi della Associazione Americana per l’Avanzamento delle Scienze, in collaborazione con le tre Accademie Nazionali americane delle Scienze, dell’Ingegneria e della Medicina, il Ministero per la Sicurezza Nazionale, e l’Istituto Nazionale per gli Standard e la Tecnologia. Tra le organizzazioni che hanno firmato la lettera appaiono quelle della comunità scientifica e tecnologica dell’informatica (ACM e CRA). Tra gli esperti che l’hanno validata basta ricordare i nomi di Vinton Cerf (il papà di Internet) e di Ronald Rivest (uno degli inventori di quella crittografia a chiave pubblica che è alla base della sicurezza delle transazioni sulla rete).

Successivamente, un rapporto del mitico MIT (il Massachussets Institute of Technology) – tra i cui autori figura lo stesso Rivest – ha nuovamente sconsigliato l’uso del voto elettronico perché neanche la “catena di blocchi” (la moda del momento più conosciuta come blockchain) è in grado di fornire i livelli di sicurezza ed affidabilità che sono indispensabili per un sistema così critico per la democrazia quale quello delle votazioni. Riporto qui un’utile tabellina che caratterizza le quattro macro-categorie di modalità di votazione con la loro codifica di pericolosità (dal più verde=più sicuro al più rosso=più pericoloso – mia elaborazione dall’articolo del MIT).

Ecco, il decreto appena pubblicato dice testualmente (art.3, comma 1): «il voto elettronico è espresso mediante una web application, a cui l’elettore può accedere con qualsiasi dispositivo digitale collegato alla rete internet e dotato di uno dei browser più diffusi». Siamo proprio nel caso indicato in rosso nella tabellina qui sopra.

È come se, per fare un esempio allineato al periodo estivo, in una situazione di estrema siccità, in cui i boschi prendono fuoco per niente, qualcuno proponga di fare un grande barbecue in pineta. Cosa potrà mai andare storto?

Ci si dimentica troppo spesso che la sicurezza dei sistemi digitali (o sicurezza informatica, anche se quelli che ci tengono a farti sapere che sono dei veri esperti parlano di cyber-security dimenticando gli italianissimi cibersicurezza o sicurezza cibernetica) è soprattutto un fatto di cultura prima che di tecnologie. La situazione della sicurezza informatica è in uno stato deplorevole. I rapporti periodici che vengono annualmente prodotti indicano che il mercato dei crimini informatici è in costante aumento. Ricordo solo due degli incidenti più recenti.

A maggio di quest’anno un attacco informatico alla Colonial Pipeline ha, per qualche giorno, messo in seria difficoltà la vita quotidiana negli Stati Uniti. Come rilevato in una successiva testimonianza di fronte al Senato americano, il punto di ingresso è stata la carenza di “igiene digitale”.

Solo la settimana scorsa è arrivata la notizia che circa 1.000 clienti di un fornitore di servizi informatici via Internet sono stati contemporaneamente attaccati. Anche in questo caso, come nel precedente, mediante ransomware, un tipo di software malevolo che blocca i sistemi informatici di chi è colpito fino al momento in cui questo non paga un riscatto (=ransom). La novità di quest’ultimo caso, rispetto a quello di maggio, è che l’attacco è avvenuto attraverso la “catena di fornitura” (supply chain, per quelli fighi) che, quanto più i sistemi informatici diventano interconnessi, tanto più diventa il tallone d’Achille della nostra società.

A questo proposito, il decreto prescrive (art.5, comma 2) che «Il codice sorgente del sistema di voto elettronico è pubblicato sul sito istituzionale del Ministero dell’interno». Ora, tutti coloro che lavorano in quest’ambito sanno bene che la disponibilità del codice sorgente di un qualunque sistema è condizione necessaria ma non sufficiente ad assicurare che il sistema in esercizio si comporti come previsto. Come sottolineato circa 40 anni fa nella Turing award lecture (il premio Turing è per l’informatica quello che la medaglia Field è per la matematica o il Nobel per altre scienze) di Ken Thompson (inventore insieme a Dennis Ritchie di Unix – il sistema operativo che attraverso la sua evoluzione in Linux è il più usato al mondo) non si può avere alcuna fiducia nel codice che non è stato completamente prodotto da sé stessi (o da persone assolutamente fidate).

Il punto chiave è nell’aggettivo “completamente”, che richiede un minimo di spiegazione per i non esperti. Il cosiddetto codice sorgente è quello scritto dai programmatori. Questo diventa codice eseguibile attraverso un processo di “compilazione”, cioè di traduzione, che viene realizzato da un altro programma, detto “compilatore”. Se questo è stato alterato, il fatto che il codice sorgente sia sicuro non garantisce che il codice eseguibile lo sia. È come quando parlate con uno straniero attraverso un interprete. Se non conoscete la lingua del vostro interlocutore straniero non avete alcuna garanzia, a meno che non vi fidiate completamente dell’interprete, che le vostre parole siano state riportate fedelmente. È uno dei motivi per cui gli interpreti negli incontri di alto livello sono persone di assoluta fiducia. A complicare la situazione, si aggiunge il fatto che la vera e propria esecuzione del codice eseguibile viene effettuata, nei dispositivi informatici, attraverso il cosiddetto “microcodice” memorizzato nei circuiti hardware del dispositivo stesso. Se non li avete realizzati voi, non potete fidarvi. Purtroppo in Italia (e in generale in Europa) una politica industriale che definire miope è un eufemismo, ha fatto sì che i grandi produttori mondiali di tali circuiti siano quasi tutti distribuiti tra gli USA e l’Est asiatico. E dovete possedere questo livello di fiducia per tutti i programmi disponibili sul dispositivo informatico che state usando e per tutti i programmi e sistemi che sono coinvolti nelle comunicazioni che avvengono tra il vostro dispositivo ed i punti di raccolta dei voti espressi elettronicamente.

Questo solo per rimanere sugli aspetti tecnologici. Ma un sistema elettorale non è solo tecnologia, sono processi e persone che li mettono in opera. Identificazione del votante, verifica del godimento del diritto di elettorato attivo, prevenzione della coercizione, sono solo alcuni degli aspetti non tecnologici la cui gestione in un sistema di voto elettronico è particolarmente delicata.

È importante poi mettersi nei panni di un criminale informatico, per capire che ovviamente non ha alcun senso attaccare un sistema finché è in fase di sperimentazione o simulazione. Conviene aspettare che sia nella sua piena operatività, per poi lanciare l’attacco nel momento in cui il potenziale profitto è massimo. Quanto può valere l’alterazione di un’elezione politica generale in un Paese di 60 milioni di abitanti del livello di sviluppo e con la collocazione geopolitica dell’Italia?

Dulcis in fundo, il decreto più volte sottolinea l’importanza che il sistema di voto elettronico dovrà garantire «un’agevole comprensione e utilizzo da parte di tutti gli elettori, con informazioni chiare e trasparenti». Decenni di esperienza di interazione con sistemi informatici di tutti i tipi (e di conoscenza di come vengono sviluppati) mi danno la solida certezza che non si riusciranno ad assicurare tali condizioni.

Aggiungo infine quella che per me è la motivazione definitiva per non adottare sistemi di voto elettronico. La trasparenza e la comprensibilità da parte di tutti i cittadini del sistema elettorale, anche di quelli tecnologicamente impreparati, sono elementi assolutamente fondamentali ed irrinunciabili per la fiducia che i risultati finali esprimano davvero la volontà degli elettori e quindi per la tenuta della democrazia.

Con la scheda cartacea nell’urna il tutto è molto semplice, verificabile e comprensibile da chiunque. Con la tecnologia digitale di mezzo, bisogna affidarsi in modo assoluto ed irrimediabile agli “iniziati”.

Che succede se questi apprendisti stregoni sbagliano qualche “formula magica”?

Siamo ad un passaggio cruciale. Il futuro della nostra democrazia dipende dalle nostre scelte.

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Versione originale pubblicata su "Key4Biz" il 13 luglio 2021.

giovedì 29 aprile 2021

PNRR e trasformazione digitale: dov'è l'informatica?

di Enrico Nardelli

Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), appena arrivato alla Camera dei Deputati, riconosce l’importanza della “transizione digitale”, che viene citata 21 volte. D’altro canto, questo è uno dei sei pilastri sui quali la Commissione Europea richiede di fondare tali piani e non si poteva quindi fare diversamente.

Mi sembra, però, che le linee progettuali che il PNRR espone per sviluppare in Italia il processo di transizione digitale siano carenti sul piano della formazione.

La tecnologia digitale sta cambiando la società in modo estremamente più radicale di quanto accaduto con la rivoluzione industriale. Ciò dipende dal fatto che le sue macchine potenziano le capacità di ragionamento delle persone, ma sono completamente sprovviste dell’adattabilità e della capacità di apprendere che hanno gli esseri umani. Ciò fa sì che la trasformazione digitale venga realizzata secondo i tradizionali schemi dell’automazione industriale, che però ha riguardato macchine che amplificavano solo le capacità fisiche delle persone. Il risultato sono sistemi digitali che ingessano il lavoro anziché renderlo più snello (quando non falliscono il loro obiettivo di automazione).

Lo snodo quindi fondamentale e prioritario affinché la transizione digitale possa avvenire in modo non solo efficace ma anche rispettoso della dignità dell’uomo e del benessere della società è attuare prima di tutto una trasformazione culturale, cioè investire in istruzione e formazione. Un’azione indispensabile per avere cittadini adeguatamente preparati nei concetti fondamentali della scienza alla base dell’odierna società digitale è introdurre l’insegnamento dell’informatica nella scuola. Nelle nazioni più avanzate questo viene attuato non solo per formare cittadini consapevoli di tutti gli aspetti in gioco nel mondo digitale ed in grado di partecipare attivamente alla sua evoluzione, ma anche per consentire la crescita e lo sviluppo economico della società. Formare le persone nelle materie alla base della trasformazione digitale consente ad un Paese di governare la sua direzione di sviluppo avendo “in casa” le competenze necessarie per la produzione dei beni e servizi che sempre di più in futuro saranno basati sui sistemi digitali. Si ottiene quindi anche il beneficio di un effetto moltiplicatore sul futuro dell’economia.

Si tratta di un fattore strategico per qualunque nazione. Da un lato vi è infatti una sempre maggiore dipendenza di prodotti e servizi dalle tecnologie informatiche in tutte le fasi di progettazione, realizzazione ed erogazione. Dall’altro va tenuto presente che lo stesso tessuto sociale (relazioni e comunicazioni) è ormai fittamente innervato da strumenti digitali. La vitalità ed il successo di un paese democratico in un futuro sempre più digitale dipenderanno quindi in larga misura dal livello di cultura informatica dei suoi cittadini.

A fronte di un panorama internazionale di Paesi che, senza fronzoli su digital skills e problem solving, hanno semplicemente inserito l’informatica nei programmi di studio scolastici a tutti i livelli, nel PNRR si parla di “competenze digitali” per ben 24 volte, senza mai citare una sola volta l’informatica come materia di studio. Nel PNRR, a proposito delle nuove competenze per gli studenti si dice (p.189): «La misura più importante sarà un corso obbligatorio di coding per tutti gli studenti nell’arco del loro ciclo scolastico.» Questa era una misura del vecchio Piano di Azione per l'Istruzione Digitale della Commissione Europea.

Ricordo che gli USA già nel dicembre 2015 hanno introdotto l’informatica nella legislazione federale tra le materie fondamentale per fornire a tutti gli studenti un’educazione bilanciata e adeguata al 21-mo secolo, a pari merito con discipline più tradizionali (quali la madrelingua, la matematica, le scienze, solo per citarne alcune). Da allora tutti e 50 gli Stati hanno messo in opera, in misure diverse, politiche per realizzare tale indirizzo ed i frutti si stanno vedendo in termini di incremento del numero di studenti (e di studentesse!) che si iscrivono a corsi universitari in cui si studia informatica. Nel Regno Unito, il governo britannico ha stanziato nel novembre 2018 un fondo di 82 milioni di sterline per l’avviamento di un istituto per la formazione dei docenti all’insegnamento dell’informatica nella scuola che sta procedendo a pieno regime. Solo pochi mesi fa in Danimarca è iniziata la discussione per uno stanziamento di 750 milioni di corone (equivalenti circa a 100 milioni di euro) per un intervento analogo. In Polonia l’informatica è materia obbligatoria, dal 2018-19, fin dalla primaria. In Israele informatica può essere studiata come materia a scelta, disponibile fin dalla quarta elementare con copertura di argomenti avanzati al liceo. In Francia è stata introdotta una certificazione per l'insegnamento dell'informatica nella scuola media (2018-19).

In un’audizione al Senato dedicata al PNRR ho presentato la situazione sopra esposta.

Nel nuovo Piano di Azione per l’Istruzione Digitale (DEAP 2021-27) la Commissione Europea ha dichiarato [COM(2020) 624 final del 30 settembre 2020]: «L'educazione informatica nelle scuole consente ai giovani di acquisire una solida comprensione del mondo digitale. L'introduzione all'informatica fin dalla più giovane età, attraverso approcci innovativi e motivanti all'insegnamento, in contesti sia formali che non formali, può contribuire a sviluppare competenze in materia di risoluzione dei problemi, creatività e collaborazione. Può inoltre promuovere l'interesse per gli studi relativi alle discipline STEM e le future carriere in tale ambito, contrastando nel contempo gli stereotipi di genere. Le azioni volte a promuovere un'educazione informatica inclusiva e di elevata qualità possono anche avere un impatto positivo sul numero di ragazze che seguono studi informatici nell'istruzione superiore e lavoreranno poi nel settore digitale o svolgeranno professioni digitali in altri settori economici

La domanda quindi sorge spontanea: ma come pensiamo di gestire la transizione digitale in Italia se non forniamo a tutti gli studenti un’istruzione di base in informatica?

Ogni cittadino, nel vedere un qualunque macchinario non pensa più si tratti di una “diavoleria” perché ha studiato a scuola quei princìpi scientifici di base che gli permettono di capire che non ci sono “miracoli” nella tecnologia.

Cosa aspettiamo a fare lo stesso per il digitale?

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Versione originale pubblicata su "Key4Biz" il 26 aprile 2021.

domenica 14 marzo 2021

L'insostenibile ricerca dell'eccellenza

di Enrico Nardelli

A causa della criticità della situazione di pandemia, soprattutto sul versante economico, si è sviluppato nelle ultime settimane un dibattito sulla produzione "nazionale" di vaccini. Osservo di passaggio che, essendo la lingua un sofisticato strumento di comunicazione, coloro che dibattono il tema parlando della produzione "autarchica" hanno già fatto una scelta di campo.

Un eccellente articolo in merito è quello di Lucio Russo, che rievoca alcuni fatti degli anni '60 (tra i quali lo smantellamento della ricerca nucleare italiana) per ribadire l'importanza di investire in ricerca nazionale, inclusa quella sui vaccini. Purtroppo, osserva giustamente Russo, quello di pensare "ma dove vogliamo andare noi che in questo campo non siamo all'avanguardia" è un atteggiamento estremamente miope. Che possa essere diffuso nell'uomo della strada relativamente a temi specialistici, passi, che sia presente nella classe dirigente ed intellettuale del Paese, è molto preoccupante.

Ritengo che alla base di tutto ci sia il mito dell'eccellenza, in base al quale solo "i migliori" possono fare certe cose. Questa visione che celebra solo il primo, quello che vince la medaglia d'oro, rispecchia una cultura individualista che è molto lontana dalle nostre radici storiche e culturali, fondate sulla partecipazione collettiva. Ci sarebbe da indagare sul perché, negli ultimi decenni, si è spinto così tanto in questa direzione. Perché si è così diffusa nella nostra cultura quest’ossessione di comprimere in una sola dimensione fenomeni e settori che hanno così tante sfaccettature? Perché si tende ormai a ridurre la complessità dei fenomeni sociali ad una semplice classifica? "Cui prodest?" è sempre un domanda fondamentale per capire ciò che accade intorno a noi.

Gli USA sono stati resi grandi dal singolo eroe e il mito del "numero uno" è onnipresente nella loro cultura, l'Italia da una comunità di artigiani, commercianti e studiosi. Certamente su questa comunità si staglia l'eccellenza, il Leonardo o il Michelangelo, ma l'Italia non sarebbe quel deposito di tesori culturali che è se si fosse perseguita solo l'eccellenza.

Si tratta di una lezione troppo spesso dimenticata. Il risultato eccezionale non può essere programmato. Non si riesce ad ottenerlo se non si ha a disposizione una larga base di praticanti. Raramente, forse, può accadere, ma - in ogni settore - non è così che si programma un futuro di successo.

Per avere l'eccellenza del singolo bisogna comunque investire nella preparazione media della massa. Per avere l'eccellenza di un Paese bisogna investire nella preparazione media dei suoi cittadini.

Che questa "insostenibile ricerca dell'eccellenza" abbia contagiato molti intellettuali che fanno riferimento ad un'area che cinquant'anni fa si muoveva invece in modo opposto, andando nelle fabbriche e nei campi per portare operai e manovali a scuola, è un mistero che lascio risolvere a chi di competenza. Il miracolo economico avviatosi a partire dagli anni '60, che ha portato il nostro paese a diventare alla fine degli anni '80 la quinta potenza industriale del mondo, ha avuto uno dei suoi elementi essenziali, oltre ai soldi del piano Marshall, in un sistema scolastico che insegnava ad approfondire e a riflettere, non a superare gli esami individuando dove mettere le crocette.

Con questo non sto dicendo che bisogna finanziare senza alcun controllo la ricerca, o qualunque altro settore, ma che la spesa in ricerca, sia di base che applicata, rappresenta uno degli investimenti più produttivi sul lungo periodo per un Paese.

A sostegno di questo porto un esempio dal mio settore, l'informatica, una di quelli che - anche a causa del suo recentissimo ingresso fra le discipline scientifiche e tecnologiche - è stato in tempi recenti più degli altri afflitto dalle necessità di giustificare imprevedibili ricadute applicative a breve. Nel grafico in figura 1, preso dal rapporto Continuing Innovation in Information Technology pubblicato nel 2012 dalle Accademie Nazionali di Scienze, Ingegneria e Medicina USA, viene mostrato come l'investimento pubblico in ricerca di base - a partire dagli anni '60, proprio quelli con cui abbiamo aperto questo articolo - abbia portato (anche dopo diversi decenni) allo sviluppo di mercati del valore di milioni e poi di miliardi di dollari.

Figura 1

Un successivo studio di quasi dieci anni dopo (pubblicato sempre dalle Accademie Nazionali nel 2020 - Information Technology Innovation) evidenzia non solo in figura 2 il legame tra le aree di ricerca di base (a sinistra) e i settori digitali applicativi (a destra)

Figura 2

ma anche in figura 3 come i settori applicativi dell'informatica hanno radicalmente trasformato altre aree produttive e dei servizi (p.es., agricoltura, salute, sport, ...).

FIgura 3

Ovviamente con questo esempio porto acqua al mio mulino, ma discorsi analoghi si possono ripetere per ogni altro settore scientifico-tecnologico. Ed è chiaro che, non essendo le risorse a disposizione infinite, non possiamo investire in tutti i possibili campi e vanno fatte delle scelte. Ma devono essere scelte che una politica lungimirante e non miope deve discutere con i cittadini e guidare.

Lucio Russo nel suo articolo ha ricordato, oltre alla ricerca in ambito nucleare condotta al Comitato Nazionale per l'Energia Nucleare, quella in ambito medico sviluppata presso l'Istituto Superiore di Sanità, e quella nel nuovissimo settore dell'elaborazione digitale in cui eccellevano l'Olivetti e l'Università di Pisa. Erano settori in cui negli anni '60 la nostra preparazione era al livello dei migliori, anche se non eravamo i "numero uno" al mondo.

Ecco immaginate se tre delle aree di ricerca considerate nei grafici che vi ho mostrato sopra fossero quelle ricordate da Russo. Immaginate se dei politici illuminati avessero a quel tempo capito che sul lungo periodo avrebbero fatto il bene del Paese a sostenere la spesa pubblica in quei settori di ricerca. Sarebbe tutta un'altra storia.

Provate ad immaginare...

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Versione originale pubblicata su "Key4Biz" l'8 marzo 2021.