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sabato 30 marzo 2019

Informatica e coding: la visione di Code.org

di Enrico Nardelli

In un mio recente articolo ho discusso delle relazioni tra informatica e coding nell’ambito dell’istruzione scolastica. Ne è scaturito un interessante dibattito sui social, nel corso del quale c’è chi ha “parteggiato” per il coding e chi per l’informatica. Dal momento che il coding (cioè la programmazione informatica) è parte dell’informatica (come discusso qua, qua e qua) ritengo utile sentire un’autorevole posizione a proposito di cosa vada insegnato a scuola.

Nel novembre scorso vi è stato in Argentina l’incontro dei Ministri dell’Istruzione del G-20. In occasione di questo incontro, dedicato allo sviluppo sostenibile, si è parlato dei problemi dell’alfabetizzazione digitale: Hadi Partovi, fondatore e CEO di Code.org ha tenuto un appassionato discorso su cosa è necessario fare per preparare i ragazzi in modo adeguato alla società digitale.

Dopo aver ribadito che l’insegnamento della matematica e delle altre scienze è fondamentale, Partovi sostiene che, così come insegniamo a svolgere divisioni e come funziona il corpo umano, è altrettanto importante insegnare cosa sono gli algoritmi e con che princìpi funziona Internet. Il problema è che, in generale, nelle scuole di tutto il mondo ci si focalizza spesso solo su come usare la tecnologia digitale. Dobbiamo invece insegnare come creare, come capire e come sfruttare questa tecnologia. A questo scopo, ha esplicitamente sostenuto che bisogna imparare l’informatica. Qua sotto un immagine del passaggio cruciale del suo discorso.


Ha sottolineato che il punto focale non è imparare il coding, nonostante la sua organizzazione si chiami, appunto, Code.org. Lo snodo è imparare l’informatica (ha usato computer science, il termine inglese per l’informatica), una disciplina scientifica che, ha ricordato, «include la programmazione, gli algoritmi, la data science, le reti, la sicurezza informatica, la robotica, l’intelligenza artificiale», e molto altro ancora.

Ricordo che Code.org ha lanciato l’evento educativo con la maggiore partecipazione al mondo, l’Ora del Codice (the Hour of Code – in cui sostanzialmente si esortano i ragazzi a programmare il computer), trasformando così il coding in un fenomeno di massa globale. Attraverso Programma il Futuro, il progetto che coordino, l’Italia è dopo gli Stati Uniti, il secondo paese al mondo per partecipazione, grazie all’impegno degli insegnanti iscritti al progetto.


Quindi, nonostante Hadi Partovi sia forse il principale artefice della “coding mania”, è convinto – e lo ha ripetuto di fronte ai Ministri dell’Istruzione del G-20 – che la soluzione non sia insegnare il coding, ma l’informatica. Ecco il suo discorso integrale doppiato in italiano. Più recentemente Partovi ha ribadito la stessa posizione in suo intervento al Word Economic Forum di Davos. Grazie all’opera di Code.org e della coalizione CSforAll ("Informatica per tutti" – di cui fanno parte tutte le maggiori aziende americane operanti nel settore delle tecnologie e servizi informatici) gli USA hanno inserito l’informatica (non il coding!) tra le materie di cui la legislazione scolastica federale richiede l’insegnamento per tutti i ragazzi e 44 stati su 50 l’hanno introdotta come materia obbligatoria nei programmi scolastici.

È quindi fondamentale insistere sull’importanza di una seria formazione scientifica sull’informatica fin dai primi anni di scuola. A tal scopo la comunità universitaria dell’informatica ha da tempo presentato al Ministero dell’Istruzione una proposta organica, basata su molteplici pluriennali esperienze sul campo. Siamo consapevoli che non si tratta di un’operazione semplice, nel contesto della scuola italiana. Ma pensiamo per un attimo di fare “tabula rasa” dei programmi scolastici e di voler riempire questo foglio bianco con quanto serve per preparare cittadini in grado di operare nella società digitale con sufficiente conoscenza delle questioni in gioco. Possiamo lasciar fuori la scienza che spiega e rende possibile questa società?

Recentemente alla Camera si è dibattuto di iniziative per lo sviluppo della formazione tecnologica e digitale in ambito scolastico, ma – pur essendo consapevole che il linguaggio della politica è diverso da quello della scienza – osservo che c'è ancora molto da fare in termini di diffusione di una corretta conoscenza dei termini e delle esperienze svolte.

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Versione originale pubblicata su "Il Fatto Quotidiano" il 20 marzo 2019.

lunedì 18 marzo 2019

Informatica e competenze digitali: cosa insegnare?

di Enrico Nardelli

Risposta breve: entrambe. Domanda: ma non sono la stessa cosa? No, ma molti nella scuola e nella società non ne sono consapevoli.

Nel mondo della scuola, in particolare, c’è confusione tra i due aggettivi “informatiche” e “digitali” ed i relativi sostantivi. Ma non è affatto colpa dei docenti, né cercare chi sia il colpevole ha una qualche utilità. Nel corso del recente Seminario Nazionale del MIUR su “Cittadinanza e cultura digitale”, uno dei valenti colleghi al tavolo dei relatori ha ricordato come nel corso degli ultimi 30 anni nella scuola si sia parlato di competenze informatiche e di competenze digitali intendendo di volta con l’uno o l’altro termine: la capacità di programmare in Pascal, di usare Word, di scrivere e-mail, di fare coding, di usare consapevolmente i social, e così via. Non è sorprendente quindi che molti dei dibattiti e degli interventi di comunicazione su queste tematiche dicano cose tra loro contrapposte.

Allora nella mia presentazione ho ricordato prima di tutto l’etimologia delle due parole: “digitale” si riferisce alla rappresentazione di un dato mediante un simbolo numerico, mentre “informatico” si riferisce alla capacità di elaborazione automatica dei dati resa possibile dai metodi e dalle teorie dell’informatica, che è una disciplina scientifica. Rappresentare dati attraverso simboli numerici non è una novità degli ultimi decenni. Lo facevano i Babilonesi per il calcolo delle orbite astronomiche e gli antichi Egizi per il calcolo delle superfici dei terreni, ognuno con il loro sistema di rappresentazione. La novità è la possibilità di elaborare queste rappresentazioni in modo automatico (cioè l’informatica), come se fosse all’opera un gigantesco complicatissimo orologio.

È chiaro a tutti che l’orologio è un mero esecutore meccanico di un calcolo pensato e progettato dall’uomo, e che un orologio non “sa” cosa siano e cosa rappresentino e a cosa servano i diversi ingranaggi che lo costituiscono. Ma la realizzazione dei computer, grazie all’informatica, consente di avere, per la prima volta nella storia dell’umanità, un sistema automatico che, manipolando simboli di cui ignora il significato secondo istruzioni di cui ignora il significato, trasforma dati che hanno significato per l’uomo. Si ottiene quindi una “macchina cognitiva”, che realizza, cioè, operazioni di natura cognitiva. Si tratta di una vera e propria rivoluzione, la “rivoluzione informatica”, che ho caratterizzato come la terza "rivoluzione dei rapporti di potere".

Adesso si chiede alla scuola di adeguarsi al fatto che siamo in una società digitale e quindi deve preparare cittadini digitali. Cosa fare? Servono “competenze digitali” o “competenze informatiche”? Per chiarirci è bene rifarci all’etimologia sopra ricordato. Le competenze digitali sono tutte quelle relative all’uso di tecnologie che manipolano dati in forma numerica: sono quindi competenze operative. Invece le competenze informatiche sono quelle attinenti ai princìpi e alle tecniche dell’informatica: sono pertanto competenze scientifiche. Servono entrambe, ma hanno scopi diversi.

I documenti dell’Unione Europea in proposito fanno purtroppo un po’ di confusione, mescolando gli aspetti operativi e quelli scientifici. Non è una mia opinione. Leggendo, ad esempio, la Raccomandazione del Consiglio dell’Unione Europea del 22 maggio 2018 si vede che la programmazione viene considerata una competenza digitale quando si tratta invece di una parte fondamentale dell’informatica, quindi di una competenza scientifica. Considerare la programmazione informatica come una competenza operativa invece che come uno degli elementi fondamentali dell’informatica, che è disciplina scientifica, equivale a degradare l’aritmetica ad una competenza operativa (quella della tabellina pitagorica). Negli Stati Uniti, in UK e in molti altri paesi avanzati la differenza è invece chiara.

In questi paesi si considera, correttamente, l’attuale società digitale come un’evoluzione della società industriale. Quest’ultima è stato il risultato della trasformazione della società agricola sotto la spinta della rivoluzione industriale. La società digitale è ancora una società di macchine, ma di tipo digitale, le “macchine cognitive”. Per preparare i cittadini alla società industriale, nei due secoli passati, non sono state date agli studenti competenze operative sui macchinari industriali, ma sono state inserite nelle scuole le discipline scientifiche che ne spiegavano i princìpi scientifici alla base. Allo stesso modo, per preparare i cittadini a comprendere appieno la società digitale serve inserire nella scuola la formazione sulla disciplina scientifica che la spiega e che l’ha resa possibile: l’informatica. Questo non nega che nella scuola servano anche le competenze digitali, il livello operativo. È bene averle, e sono trasversali a qualunque disciplina, perché in ogni materia il docente può avvantaggiarsi nella sua attività didattica e di gestione dal possesso di un buon livello di competenze digitali.

In conclusione, certamente la scuola deve formare le competenze digitali degli studenti (livello operativo) e deve assicurarsi che le posseggano anche i loro docenti, di ogni materia. Però è assolutamente necessario fornire un’istruzione informatica agli studenti (livello scientifico), per renderli in grado di partecipare in modo attivo e informato alla società digitale.

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Versione originale pubblicata su "Il Fatto Quotidiano" il 13 marzo 2019.

venerdì 15 marzo 2019

Trasformazione digitale e sviluppo dell'Italia

di Enrico Nardelli

Un tema fondamentale su cui molto si discute è quello dell'informatica (anche se adesso è di moda dire "digitale") come strumento fondamentale per ridare competitività ed efficienza al sistema produttivo del Paese ed alla sua Pubblica Amministrazione. Vorrei esporre in merito alcuni spunti di riflessione.

La Pubblica Amministrazione è drammaticamente indietro in termini di comprensione di come l'informatica possa dare efficienza ed efficacia alle sue azioni. Da un lato vi sono le normative alle volte troppo rigide nel rispetto della forma perché ossessionate dal binomio corruzione/sprechi quando invece sarebbe necessario un radicale cambiamento di approccio, inadeguato alla realtà dello sviluppo dei sistemi informatici.

Dall'altro pesa una carenza culturale dei suoi dirigenti nel capire le implicazioni dell’usare l'informatica nelle organizzazioni. Il mio collega universitario Paolo Coppola nella precedente legislatura ha guidato la commissione parlamentare d'inchiesta sulla digitalizzazione della PA che ha messo in luce, durante le sue audizioni, come in molti, troppi, ministeri ed enti pubblici si sia rimasti fermi ad una visione dell’informatica come automazione “a silos” di singole funzioni di elaborazione dati, slegate da una visione globale e di processo delle relazioni tra l’organizzazione in sé, le sue interfacce nella rete della PA e i cittadini. Il tutto complicato da una visione “tradizionale” dell’automazione, che assume che una volta che l’esecuzione di una funzione sia stata affidata ad una macchina, il problema si possa considerare risolto. Nel caso dell’informatica non è così, la vera informatizzazione dei servizi è sempre in fase di manutenzione, perché è la realtà ad essere in continua evoluzione. Ma se non si hanno “in casa” le persone in grado di realizzare questa manutenzione, se si deve ricorrere continuamente al fornitore esterno, costi e tempi lievitano in modo intollerabile.

Purtroppo la nostra classe politica si è spesso riempita la bocca del digitale, ma non ha mai messo in gioco la sua influenza e il suo peso per far cambiare davvero le cose. Nei vari partiti ci si limita ad inseguire i termini più alla moda nella sfera del digitale (ieri il cloud e i big data oggi l’intelligenza artificiale e la blockchain) senza affrontare alla base un tema fondamentale per il nostro futuro. Come ha scritto magistralmente Morozov qualche anno fa (I signori del silicio) “per un partito di massa odierno, non curarsi della propria responsabilità sul digitale equivale a non curarsi della propria responsabilità sul futuro stesso della democrazia”. Adesso la ministra Bongiorno vuole spingere l’acceleratore sulla trasformazione digitale della PA, ma temo che nominare generali senza dotarli di adeguati eserciti non servirà a molto. In assenza di un significativo numero di assunzioni di diplomati e laureati in informatica, efficienza ed efficacia della PA non riusciranno a migliorare.

Un atteggiamento parallelo, ma con diverse motivazioni, lo ha tenuto il sistema produttivo. Questo in Italia è costituito essenzialmente da micro e piccole imprese, che non usano il digitale o lo usano poco non perché – come dice qualcuno – sono pervase dal familismo amorale o non ne hanno capito il potenziale di vantaggio competitivo, ma perché sistemi informatici troppo rigidi costituirebbero la melassa che li ucciderebbe rapidamente. Il tipico industriale italiano – per niente stupido e che della flessibilità e velocità di cambiamento ha fatto la sua arma strategica – l'ha intuito ed è rimasto un po' a guardare: primum vivere!

Anche questo atteggiamento deriva da una carenza culturale, ovvero dal non aver capito che l'unica informatica buona è quella "personalizzata" che accompagna l'azienda in modo flessibile, come se fosse una persona, ma che è in grado di lavorare senza stancarsi e senza sbagliare, come purtroppo accade alle persone. E questo non si può ottenere semplicemente comprando soluzioni “chiavi in mano”, come è avvenuto per le precedenti innovazioni tecnologiche. Mentre gli imprenditori sono sempre stati agili nel modernizzare le linee produttive ogni qualvolta hanno intravisto un’opportunità di mercato, nel caso dell’automazione digitale, capendo il pericolo della sua rigidità, gli imprenditori, dovendo mettere in gioco i loro capitali, sono prudentemente rimasti alla finestra, senza sprecare risorse economiche.

È un problema culturale, ma anche politico. La spesa pubblica di Impresa 4.0 è certamente positiva, ma se poi questa serve a comprare soprattutto macchinari e soluzioni estere, è difficile che possa contribuire al rilancio del Paese. Andrebbe attuato un massiccio programma di supporto alla formazione dei lavoratori attivi, che non può limitarsi alle pur necessarie competenze digitali dell’utente finale. Gli USA lo hanno capito benissimo tanto da istituire l’anno scorso il “Consiglio Nazionale per il Lavoratore Americano” con l’obiettivo di migliorare istruzione e formazione professionale dei lavoratori, in modo da renderli competitivi nel sistema industriale, sempre più pervaso di digitale, che ci aspetta in futuro.

La sfida per capire l'informatica è comprendere che, da soli, hardware e software sono soluzioni migliorative solo sul breve periodo. A medio e lungo termine serve avere le persone che siano in grado di adattare queste soluzioni digitali (che io chiamo “macchine cognitive”, perché sono costituite da intelligenza umana cristallizzata in forma di meccanismo) alle mutare delle esigenze al contorno. Gli scenari di business cambiano quasi settimanalmente, il software non è in grado di adeguarsi, servono le persone in grado di farlo. Serve anche incentivare la crescita di un settore italiano dell'informatica, in grado di sviluppare e far evolvere soluzioni appropriate per la nostra società.

I politici del cambiamento riusciranno a cambiare questo stato di cose?

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Versione originale pubblicata su "Agenda Digitale" il 7 marzo 2019.