In un precedente articolo ho iniziato ad affrontare la questione terminologica legata all’uso dell’espressione “intelligenza artificiale” (IA), che ci porta ad attribuire agli strumenti digitali basati su di essa più di quanto essi siano in grado compiere.
Lo scenario non è facile da capire bene, soprattutto per i non addetti ai lavori, dal momento che le parole che compongono tale termine non aiutano la comprensione comune. Infatti, nell’espressione “intelligenza artificiale” l’aggettivo “artificiale” dà al sostantivo “intelligenza” solo una qualificazione ontologica, cioè che indica la natura costitutiva dell’ente ma non ne descrive le funzioni. Quali siano queste funzioni viene invece comunicato dal sostantivo stesso. Per chiarire attraverso un esempio più comune, quando parliamo di “cuore artificiale” è chiaro a tutti che si tratta di un oggetto fatto di una sostanza diversa da quella di quell'organo che ognuno porta nel petto (è artificiale) ma svolge le sue stesse funzioni (è un cuore).
Per questo, l’espressione “intelligenza artificiale” esprime sì correttamente il fatto che si tratta di qualcosa costituito da una materia diversa da quella sulla quale si basa l’intelligenza umana, ma inganna completamente il senso comune facendo pensare che di vera e propria intelligenza umana si tratti. Certo, indichiamo come intelligenti anche alcuni comportamenti manifestati da cani o gatti o cavalli o scimmie. Però, quando diciamo che un animale è intelligente lo facciamo esattamente perché, in una o più occasioni, si è comportato “come se” fosse stato una persona, ma l'immediatezza vividamente percepibile della sua natura non umana ci impedisce di attribuire ad esso più di quanto c'è nell'uso metaforico del termine. Data la nostra assuefazione alle interazioni digitali, quando invece riceviamo un risultato prodotto da uno strumento dell’IA, poiché la sua natura fisica fatta di circuiti elettronici è nascosta, tendiamo a vedere – a causa di questa espressione evocativa ma imprecisa – più di quello che c’è, trascurando quell’aspetto essenziale del “come se”.
Dovremmo invece chiamare l’IA “intelligenza meccanica”, dal momento che “meccanico” è un aggettivo che descrive le modalità di funzionamento o comportamento di una macchina. Si pensi, ad esempio, all’uso dell'espressione "comportamento meccanico" in opposizione a "comportamento naturale". L’utilizzo dell’aggettivo “meccanico” avrebbe quindi il pregio di richiamare l’attenzione sia sul fatto che la costruzione di nuove rappresentazioni avviene su un piano esclusivamente logico-razionale sia sul modo con cui quest’elaborazione viene eseguita. Cioè, a prescindere da ogni considerazione fisica o emotiva e, quindi, in modo alieno rispetto alla nostra natura. Il che non vuol dire che sia inutile, tutt’altro, ma che è cosa ben diversa da ciò che normalmente chiamiamo “intelligenza”. Le mancano infatti molte dimensioni che danno senso al termine intelligenza usato per le persone, da quella corporea, attraverso la quale sperimentiamo e conosciamo il mondo fisico intorno a noi e che costituisce il substrato comune alle nostre interazioni con gli altri, a quella emotiva, che ci permette di stabili relazioni autentiche e profonde con i nostri simili, a quella artistica, con la quale possiamo esprimere in modo estremamente pregnante il nostro senso estetico, solo per ricordare le più importanti.
Parafrasando un detto a proposito dell’intelligenza dei computer attribuito da questo sito a Edsger Dijkstra, uno dei grandi padri dell’informatica, dire che un sistema informatico è una “intelligenza artificiale” è come dire che un sottomarino è un “pesce artificiale”. Mi pare evidente che sia più preciso definire semmai il sottomarino un “pesce meccanico”.
Il problema è nella parola “intelligenza”: quando la usiamo ci portiamo fatalmente appresso tutte le dimensioni che, nella persona umana, sono inestricabilmente associate ad essa e dipendenti dal suo essere indissolubilmente incarnata in uno specifico corpo fisico. Invece, quella delle macchine cognitive è un’intelligenza totalmente “disincarnata”, quindi priva di tutte quelle componenti che danno senso al nostro destino di esseri umani e al nostro ruolo nella società.
Pragmaticamente, so benissimo che sarà difficile scardinare l'uso di IA, ormai diffuso da 70 anni e che nell'ultimo periodo è esploso diventando parte del discorso comune. Va però ricordato che agli albori di questa disciplina, soprattutto nel mondo accademico, era molto diffusa l’espressione machine intelligence (= intelligenza delle macchine) che certamente serve meglio allo scopo di far capire che stiamo parlando di un tipo diverso di intelligenza. Tra l’altro, era quella usata da Alan Turing, l’informatico inglese che ha inventato il modello teorico di un computer che è ancora oggi il riferimento per tutti gli studiosi del settore e che ha aperto l’area di ricerca dedicata alla comprensione di cosa possa essere l’intelligenza di un computer.
Usare quest’espressione mette bene in rilievo che un'intelligenza meccanica decide in modo puramente razionale, prescindendo dalla natura delle persone e delle relazioni umane, e può aiutare le persone comuni a comprenderla meglio. Ne ho parlato, insieme a riflessioni più generali sul ruolo dei sistemi informatici nella società nella puntata 19 e nella puntata 20 del podcast “Onlife: psicologia della vita quotidiana con Internet”.
Parlare di intelligenza meccanica sarebbe inoltre utile per ricondurla al suo ruolo di potente amplificatore delle nostre capacità di ragionamento logico, così come le macchine industriali potenziano le nostre capacità fisiche. Potrebbe percepirsi meglio, ad esempio, che l'idea di delegare alle macchine cognitive processi decisionali finora svolti dalle persone non è un'idea molto democratica. Chi ritiene che governare la società umana attraverso l'intelligenza meccanica conduca a risultati migliori per tutti non ha compreso che il cosiddetto "bene comune" può emergere solo da un dibattito democratico. Oppure, lo sa benissimo, ed è interessato proprio a svuotare di significato la democrazia. Considerando che gli attori predominanti nel settore del digitale sono multinazionali con bilanci superiori a quelli di molti Stati, l'idea che essi vogliano incrementare in questo modo la loro sfera di influenza non è del tutto peregrina.
Usare le parole in modo appropriato è condizione necessaria per poter avere un dia-logo costruttivo.
--Versione originale pubblicata su "StartMAG" il 25 febbraio 2024.
analisi molto interessante: ho riguardato la definizione del test di turing dove si parla di "esibizione di un comportamento intelligente". C'è da riflettere tanto sulle parole
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