di Enrico Nardelli
Ho apprezzato molto, nell’intervento di Stefano Cuppi pubblicato nell'ambito del dibattito "La RAI che vorrei", la lucidità di visione sul ruolo della RAI in relazione al multimediale. Egli infatti auspica “Eppure il Maestro Manzi oggi farebbe questo, lavorerebbe per abbattere l’analfabetismo digitale che incombe nel nostro paese. Il servizio pubblico multimediale dovrebbe svilupparsi in questa direzione: educare, divertire ed informare, anche mettendo a disposizione dei ragazzi e delle scuole il grande patrimonio digitale delle proprie teche, insegnare loro a manipolare i contenuti digitali degli archivi, spingere le nuove generazioni verso la conoscenza dei linguaggi di programmazione, incentivare la produzione di algoritmi per la fruizione e lo scambio di informazioni e contenuti.”
Come professore universitario di informatica ed osservatore privilegiato del progetto MIUR “Programma il Futuro”, che proprio Cuppi cita come esempio di un’alfabetizzazione in cui la RAI dovrebbe essere coinvolta (lo coordino per conto del soggetto attuatore CINI – Consorzio Interuniversitario Nazionale per l’Informatica, insieme al collega Giorgio Ventre) vorrei svolgere alcune considerazioni per rilanciare ed estendere quanto sopra citato.
Le tecnologie digitali negli ultimi venti anni hanno invaso la società come conseguenza della rivoluzione informatica, che sintetizza ed integra due delle maggiori rivoluzioni del passato, quella della stampa e quella industriale. Ne ho parlato più estesamente su questa pagina.
I cambiamenti che la rivoluzione informatica ha messo in moto nel corso del Novecento sono di portata ancora maggiore delle precedenti, perché si tratta di una rivoluzione che incide sul piano cognitivo. Essa sarà probabilmente ancora più incisiva delle altre due, dal momento che offre la possibilità di replicare non più soltanto la conoscenza statica dei libri e la forza fisica di persone e animali, ma quella “conoscenza in azione ” che è il vero motore dello sviluppo e del progresso.
Col termine “conoscenza in azione ” intendo quel sapere che non è soltanto una rappresentazione statica di fatti e relazioni ma un processo dinamico e interattivo di elaborazione e di scambio dati tra soggetto e realtà. Grazie alla rivoluzione informatica, questa “conoscenza in azione ” – un tempo limitata al “maestro” che la possedeva – viene riprodotta e diffusa sotto forma di programmi software, che possono poi essere adattati, combinati e modificati a seconda di specifiche esigenze locali. Gli sviluppi di questa rivoluzione sono ancora più impetuosi di quelli scatenati dalle due precedenti, come dimostrano ciò che accade nel settore del “free software” e il continuo fiorire di società start-up focalizzate sull’informatica.
Giustamente Cuppi ha ripreso nel suo intervento le affermazioni di Michele Mezza, che ha sottolineato l’importanza del ruolo del software, ormai onnipresente nella selezione e promozione delle notizie. In particolare, una frase è centrale per quanto dirò nel seguito: “La BBC produce almeno il 50% degli algoritmi che adotta in casa. … Un servizio pubblico audiovisivo non è dato se non ha pieno controllo dei propri linguaggi.”
La società contemporanea, grazie all’automazione di molti aspetti informativo-cognitivi del lavoro umano, si sta trasformando in una “società dei servizi ”, che sarebbero impensabili senza le tecnologie digitali. Ma questa meccanizzazione pone diverse problematiche. In estrema sintesi: non basta produrre software, è essenziale gestirne l’evoluzione. Questo vuol dire che è cruciale capire che i sistemi software – in misura largamente maggiore rispetto ad ogni altro sistema costruito dall’uomo – sono sistemi in continuo adattamento, per il quale il ruolo dell’essere umano continua ad essere essenziale. Ciò è vero nonostante gli impressionanti avanzamenti dell’intelligenza artificiale e fintanto che vogliamo che continui ad esistere una società di persone e non di macchine. Per chi volesse approfondire, ecco il testo dell'intervento, discusso nel convegno di Informatics Europe del 2010.
Inoltre, non è sufficiente produrre algoritmi in casa.
Bisogna far sì che si diffonda nell’intero Paese quella cultura di base che rende poi possibile formare chi scrive quegli algoritmi. I quali sono di importanza strategica sia per l’attuale sistema delle comunicazioni che per tutti gli altri sistemi informatici che sempre di più pervadono la nostra società.
Non si tratta quindi di diffondere il patrimonio digitale solo degli archivi RAI, ma quello di un’intera nazione, che custodisce nelle proprie biblioteche e musei un patrimonio ineguagliato da ogni altra. Non si tratta di incentivare solo la conoscenza di linguaggi di programmazione, ma di far sì che ogni persona sia in grado di rendere fruibile a tutta la comunità la propria “conoscenza in azione”. Provate a pensare all’effetto di moltiplicazione esplosiva che avrebbe avuto nel Rinascimento italiano la disponibilità di una tecnologia per la comunicazione e la diffusione dell’informazione quale quella che vediamo adesso.
È necessario diffondere in tutta la società una vera comprensione delle fondamenta culturali e scientifiche delle tecnologie digitali. Altrimenti rischiamo - soprattutto in Italia - di essere consumatori passivi ed ignari di tali servizi e tecnologie, invece che soggetti consapevoli di tutti gli aspetti in gioco ed attori attivamente partecipi del loro sviluppo.
La formazione su questi aspetti fondamentali, che nel nostro progetto denominiamo “pensiero computazionale”, riprendendo un termine introdotto da Seymour Papert e popolarizzato da Jeannette Wing, è altrettanto importante, nella società contemporanea, di quella svolta nel corso del secolo passato sulla matematica, fisica, biologia e chimica. Esse sono state introdotte nel secolo scorso come materie obbligatorie nella scuola secondaria, con un’introduzione ad esse effettuata nella primaria, non per far diventare tutti gli studenti dei matematici, fisici, biologi o chimici, ma perché la formazione su queste discipline era un fattore chiave per lo sviluppo della moderna società industriale.
Il progetto “Programma il Futuro” ha portato questo tipo di formazione nelle scuole italiane, come sperimentazione inquadrata nelle iniziative de “La Buona Scuola”. In un anno e mezzo il responso è stato entusiasmante, nonostante la scelta di aderire sia stata lasciata all’autonomia didattica dei docenti e non siano stati assegnati fondi ad hoc alle scuole. Nell’anno scorso 300.000 studenti coinvolti, fino a gennaio di quest’anno già più di 600.000. Nel Piano Nazionale Scuola Digitale, rilasciato ad ottobre scorso, è stato inserito l’obiettivo di far svolgere a tutti gli studenti delle scuole elementari 10 ore l’anno di pensiero logico-computazionale. Obiettivo ambizioso, ma fondamentale per la crescita culturale (ed anche economica – per quanto prima detto) dell’Italia.
È certamente auspicabile che anche la RAI dia il suo contributo. D’altro canto, proprio le nuove tecnologie didattiche rendono possibile sviluppare la formazione in modi che ne consentono la replicabilità e la diffusione in numeri irraggiungibili con approcci tradizionali.
Nel nostro progetto siamo partiti dal materiale didattico che ha realizzato Code.org negli USA, ovvero l’iniziativa “Hour of Code” che ha fatto programmare il primo presidente USA della storia e condotto in 3 anni 200 milioni di studenti in tutto il mondo ad avvicinarsi all’informatica. Adattando questo materiale all’Italia e fornendo un servizio di supporto siamo riusciti a far arrivare questi primi “semi” di formazione al pensiero computazionale a quasi un milione di studenti. Se un partner tipo la RAI si facesse ispirare, come Cuppi e Mezza hanno ricordato, dall’esempio della BBC ma lavorasse sul software invece che sull’hardware basterebbe meno di un decimo di quanto ha speso l'azienda del Regno Unito per estendere il progetto a tutti gli insegnanti ed a tutte le scuole italiane.
Il pensiero computazionale ha il grande vantaggio di poter essere insegnato molto efficacemente mediante la tecnologia digitale. Bisognerebbe sfruttare questa caratteristica per inserire nella scuola, risolvendo i vincoli organizzativi, la formazione su aspetti essenziali per lo sviluppo di cittadini in grado di comprendere bene la complessa società contemporanea.
Per quanto riguarda il pensiero computazionale, nelle primarie è relativamente più facile inserirlo, nelle secondarie inferiori potrebbe trovare uno spazio nell’area delle tecnologie, nelle superiori c’è pochissima flessibilità. Ma, ripeto, con le nuove tecnologie una parte delle lezioni che tradizionalmente svolge il professore in aula potrebbero essere realizzate dagli studenti in autonomia, lasciando alla classe il momento della discussione, del confronto e della verifica. Nel nostro progetto , un corso MOOC di formazione per gli insegnanti, realizzato dal collega Alessandro Bogliolo, ha avuto migliaia di insegnanti al seguito. I nostri video didattici sul canale YouTube viaggiano ormai sulle quasi 10.000 visualizzazioni al mese, avendo già superato le 100.000 in totale.
A pensarci bene, di uno sforzo di questo genere non ne beneficerebbe solo la scuola e la RAI del futuro. Chiunque che volesse avere una riqualificazione professionale (e l’informatica continua ad essere uno dei mestieri con le maggiori possibilità occupazionali ed i migliori livelli salariali), a qualunque età, potrebbe accedere ad un tale programma di formazione. Avete pensate al patrimonio di conoscenza e di esperienza che vi è in una popolazione magari non anziana, ma semplicemente matura, espulsa brutalmente dal mercato del lavoro e che potrebbe, grazie ad una tecnologia che non è limitata dai vincoli della materialità, ritrovare un suo spazio lavorativo, ritrovare speranze e re-infondere senso nella propria vita?
Si dovrebbe fare.
Si può fare.
Il MIUR ha un piano, il CINI ha le braccia. Se la RAI ci mettesse la voglia, l’Italia farebbe un eccellente investimento per il suo futuro.
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Pubblicato su key4biz il 13 aprile 2016.
giovedì 19 maggio 2016
martedì 3 maggio 2016
Il cyber è più reale che mai
di Isabella Corradini
Siamo talmente abituati ad usare termini come “realtà virtuale” e prefissi come "cyber" in ogni situazione, che non ci rendiamo conto di come quest'uso possa influenzare i comportamenti e la loro percezione.
Sappiamo di cosa parliamo quando usiamo il termine "realtà virtuale"? Secondo la definizione essa rappresenta la simulazione di una situazione reale con il quale il soggetto umano può interagire. Quindi, il virtuale come simulazione del reale.
La Rete, invece, non è una simulazione al di fuori di noi ma parte integrante del nostro vivere quotidiano. Anzi, l'impressione è che questa cosiddetta realtà virtuale abbia ormai fagocitato quella reale. Consultiamo quotidianamente la Rete per tutte le informazioni di cui abbiamo bisogno, dalla ricerca di un dettaglio ad una prenotazione di viaggio. Ci connettiamo con il nostro mondo sociale, noi stessi veniamo contattati da altre persone mediante mail, social network, e via dicendo. Gli effetti di questo straordinario connettore che è Internet sono dunque assolutamente reali e tangibili.
L’osservazione iniziale nasce quindi dalla considerazione che un uso non appropriato della terminologia può avere un forte impatto sulla percezione dei comportamenti umani.
Ovvero, il fatto di dire "tanto è virtuale" può favorire comportamenti superficiali o negativi, nei quali la valutazione delle conseguenze non è ponderata rispetto agli effetti reali.
Si pensi, ad esempio, al fenomeno del cyber bullismo, ovvero quella forma di bullismo elettronico che mediante i dispositivi tecnologici di comunicazione, dai cellulari ai social network, replica comportamenti aggressivi e prevaricatori nei confronti di soggetti più deboli.
Di certo la mediazione operata dalle tecnologie dell’informazione favorisce la disinibizione del comportamento, dal momento che chi agisce pensa che a compiere l'atto concreto sia lo strumento tecnologico, deresponsabilizzandosi dunque rispetto all'accaduto.
Ma a ben vedere l'intenzione di prevaricare sull'altro c'è, anche se espressa con una differente modalità. Che peraltro è devastante, in quanto amplifica la conoscenza del fatto, estendendola via web ad una moltitudine di persone, invisibili, ma anch’esse esseri viventi.
E si sa che quando la vittima è reale, le inibizioni sono più forti e il passaggio all’atto (acting out) diventa più difficile. Nel nostro caso, invece, l’intermediazione tecnologica inserisce una distanza fisica che produce distacco emotivo ed una minore responsabilizzazione, rendendo l’azione più facile da compiere. Ma anche se si pensa che l'atto sia compiuto in un contesto virtuale, la vittima è comunque "reale" così come lo sono le conseguenze prodotte, in alcuni casi purtroppo estreme.
Lo stesso prefisso cyber viene ormai impiegato per ogni cosa. Anche per descrivere condotte criminose di varia natura (e già note), come il cyber stalking, il cyber terrorismo, il cyber spionaggio, solo per fare un esempio. Tuttavia, occorre cautela: usando il prefisso cyber si rischia, infatti, di portare l'attenzione solo sull'aspetto tecnologico della questione, e di trascurare quello umano. E si sa che in una condotta criminosa (ma anche nel comportamento umano in generale) la motivazione e la volontà sono elementi di comprensione assai rilevanti.
L'elemento tecnologico favorisce l'esecuzione ma bisogna considerare che dietro c'è sempre chi elabora strategie, chi esegue e chi ne subisce le conseguenze. E non si tratta di una “retrovia” del comportamento criminale, ma di una parte importante dell’azione stessa.
Senza contare che virtuale e cyber vengono spesso usati come sinonimi nel linguaggio comune, rafforzando una percezione di distacco rispetto al reale.
Ma il cyber è più reale che mai.
Pubblicato su Bancaforte il 14 aprile 2016.
Siamo talmente abituati ad usare termini come “realtà virtuale” e prefissi come "cyber" in ogni situazione, che non ci rendiamo conto di come quest'uso possa influenzare i comportamenti e la loro percezione.
Sappiamo di cosa parliamo quando usiamo il termine "realtà virtuale"? Secondo la definizione essa rappresenta la simulazione di una situazione reale con il quale il soggetto umano può interagire. Quindi, il virtuale come simulazione del reale.
La Rete, invece, non è una simulazione al di fuori di noi ma parte integrante del nostro vivere quotidiano. Anzi, l'impressione è che questa cosiddetta realtà virtuale abbia ormai fagocitato quella reale. Consultiamo quotidianamente la Rete per tutte le informazioni di cui abbiamo bisogno, dalla ricerca di un dettaglio ad una prenotazione di viaggio. Ci connettiamo con il nostro mondo sociale, noi stessi veniamo contattati da altre persone mediante mail, social network, e via dicendo. Gli effetti di questo straordinario connettore che è Internet sono dunque assolutamente reali e tangibili.
L’osservazione iniziale nasce quindi dalla considerazione che un uso non appropriato della terminologia può avere un forte impatto sulla percezione dei comportamenti umani.
Ovvero, il fatto di dire "tanto è virtuale" può favorire comportamenti superficiali o negativi, nei quali la valutazione delle conseguenze non è ponderata rispetto agli effetti reali.
Si pensi, ad esempio, al fenomeno del cyber bullismo, ovvero quella forma di bullismo elettronico che mediante i dispositivi tecnologici di comunicazione, dai cellulari ai social network, replica comportamenti aggressivi e prevaricatori nei confronti di soggetti più deboli.
Di certo la mediazione operata dalle tecnologie dell’informazione favorisce la disinibizione del comportamento, dal momento che chi agisce pensa che a compiere l'atto concreto sia lo strumento tecnologico, deresponsabilizzandosi dunque rispetto all'accaduto.
Ma a ben vedere l'intenzione di prevaricare sull'altro c'è, anche se espressa con una differente modalità. Che peraltro è devastante, in quanto amplifica la conoscenza del fatto, estendendola via web ad una moltitudine di persone, invisibili, ma anch’esse esseri viventi.
E si sa che quando la vittima è reale, le inibizioni sono più forti e il passaggio all’atto (acting out) diventa più difficile. Nel nostro caso, invece, l’intermediazione tecnologica inserisce una distanza fisica che produce distacco emotivo ed una minore responsabilizzazione, rendendo l’azione più facile da compiere. Ma anche se si pensa che l'atto sia compiuto in un contesto virtuale, la vittima è comunque "reale" così come lo sono le conseguenze prodotte, in alcuni casi purtroppo estreme.
Lo stesso prefisso cyber viene ormai impiegato per ogni cosa. Anche per descrivere condotte criminose di varia natura (e già note), come il cyber stalking, il cyber terrorismo, il cyber spionaggio, solo per fare un esempio. Tuttavia, occorre cautela: usando il prefisso cyber si rischia, infatti, di portare l'attenzione solo sull'aspetto tecnologico della questione, e di trascurare quello umano. E si sa che in una condotta criminosa (ma anche nel comportamento umano in generale) la motivazione e la volontà sono elementi di comprensione assai rilevanti.
L'elemento tecnologico favorisce l'esecuzione ma bisogna considerare che dietro c'è sempre chi elabora strategie, chi esegue e chi ne subisce le conseguenze. E non si tratta di una “retrovia” del comportamento criminale, ma di una parte importante dell’azione stessa.
Senza contare che virtuale e cyber vengono spesso usati come sinonimi nel linguaggio comune, rafforzando una percezione di distacco rispetto al reale.
Ma il cyber è più reale che mai.
Pubblicato su Bancaforte il 14 aprile 2016.
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