di Enrico Nardelli
In questa ripresa autunnale delle attività del mondo dell’istruzione si va diffondendo, dalla scuola all’università, il concetto che il coding (cioè la programmazione informatica) sia il nuovo inglese.
Ha iniziato la Bocconi, imponendo a tutti gli studenti della triennale l’esame di programmazione. Ho stigmatizzato più di tre anni fa la sciatteria linguistica dell’usare un termine inglese al posto dell’equivalente italiano. Non sono stato né il primo né l’ultimo, ma ci tengo a ribadire che usare la nostra lingua significa sostenere la nostra identità sociale e culturale. E le identità sono importanti per rispettare le differenze. La biologia e la fisica da milioni di anni ci insegnano che solo dalla differenziazione nasce la ricchezza dei sistemi.
Diversi giornali hanno ripreso e rilanciato questo concetto, comunicativamente molto semplice, ma concettualmente del tutto sbagliato, ed hanno invocato l’introduzione del coding anche nelle scuole. Spiegherò in modo sintetico perché questa formulazione sia errata.
Poiché la programmazione informatica consiste nel dare istruzioni ad un computer, può sembrare che imparare un linguaggio di programmazione sia la stessa cosa dell’imparare una nuova lingua. Così come con circa un miliardo di persone che parlano cinese o inglese ha senso imparare una di queste lingue, così con diversi miliardi di oggetti tecnologici al mondo che sono computer sembra utile imparare “la lingua dei computer”.
Il problema è che la lingua è solo lo strumento mediante il quale viene espresso il pensiero. Non essendo un linguista, non discuto se l’ipotesi di Sapir-Worf (la lingua parlata condiziona il sistema cognitivo del parlante) sia vera o meno. Ma è ben chiaro a tutti che non è tanto il sapere l’inglese che determina il successo di un imprenditore o di un professionista, quanto le sue competenze e abilità nel suo specifico campo.
Non basta quindi conoscere un linguaggio di programmazione per capire e comprendere il mondo digitale. È illusorio e sbagliato pensarlo. Così come un’espressione linguistica è solo una rappresentazione del pensiero, così un programma informatico è solo la forma mediante cui rendiamo concreto il “modo di pensare di un informatico”, cioè il pensiero computazionale.
Ciò che quindi dovrebbe essere insegnato, nelle scuole ancor prima che nelle università, è la disciplina che favorisce lo sviluppo di questo modo di pensare, cioè l’informatica. Questo è necessario per comprendere le basi scientifiche del mondo digitale, per sapersi orientare nella società odierna in modo più informato e competente.
Però il lettore fedele, o quello critico che si pone la domanda «ma vediamo un po’ che ha scritto il Nardelli su questo tema» e fa un po’ di ricerca, potrebbero obiettare: «scusa, ma tu stesso hai parlato del Pensiero computazionale come nuovo linguaggio per la descrizione del mondo e di Informatica: il nuovo latino che tutti amano». Non sono linguaggi?
Purtroppo la comunicazione umana è terreno estremamente scivoloso. Un’espressione può essere in certi casi uno scalpello che incide esattamente il profilo voluto, ma in altri casi può assumere significati estremamente diversi. Quest’ultimo può essere un vantaggio che permette di ottenere un vasto consenso, ma si trasforma in debolezza quando si tratta di assumere basi condivise e concordare azioni comuni. Il mondo della conoscenza scientifica utilizza un linguaggio matematico proprio perché è l’unico che apporta solo benefici, senza danni. Nella comunicazione tra persone non c’è alternativa alla discussione serena ed argomentata.
In quei precedenti articoli ho usato il termine “linguaggio” nel significato con cui spesso si usa il termine “matematica” per denotare un “linguaggio” in grado di descrivere con assoluta esattezza quantità e relazioni. Per usare termini un po’ filosofici, ho usato “linguaggio” come sinonimo di “paradigma epistemologico”. Detto in parole povere, come sinonimo di “chiave per la lettura della realtà”. Quindi dicendo che “il pensiero computazionale fornisce un nuovo linguaggio per la descrizione del mondo” sto dicendo che mediante di esso è possibile descrivere alcuni fenomeni “come se” fossero delle computazioni. Non è detto che lo siano effettivamente, ma attraverso l’informatica si hanno nuovi e utili modi per analizzare e spiegare la realtà. Un esempio lampante è la descrizione dei processi biologici a livello molecolare: il meccanismo di replicazione del DNA può anche essere visto “come se” fosse una computazione, e questo ha offerto enormi vantaggi per la sua comprensione. Anche in economia e in sociologia si trovano esempi dell’utilità dell’approccio informatico.
Ritorno sull’importanza di insegnare già nella scuola “come pensa un informatico” con un esempio preso dalla matematica. Nelle elementari insegniamo “a far di conto” non tanto perché il fine sia imparare 3x2=6 o 12:4=3, cioè la tavola pitagorica, quanto perché è importante che il bambino capisca che se 3 bambine hanno 2 caramelle ciascuna il numero totale di caramelle si ottiene con la moltiplicazione, mentre se 12 biscotti devono essere distribuiti a 4 bambine il numero di biscotti per bambina si ottiene con la divisione. Non stiamo quindi tanto insegnando uno strumento operativo, quanto una chiave di comprensione della realtà (“il pensiero matematico”).
E perché andrebbe insegnata nella scuola? potrebbero chiedere altri lettori, osservando che bambine e bambini sono ormai tutti nativi digitali che già parlano “la lingua dei computer”. Ho già spiegato che non si tratta di insegnare un linguaggio ma un modo di pensare.
Inoltre, come aveva già evidenziato Giorgio Israel, l’espressione “nativi digitali” indica semplicemente coloro che sono nati in una società digitale. Estendere tale denotazione a suggerire una loro capacità di comprensione “innata” di tale mondo è una delle insidie della comunicazione di cui dobbiamo essere avvertiti. Soprattutto se parliamo della maggioranza della popolazione scolastica e non ci facciamo abbagliare dalle eccezioni che sono quelle che più facilmente trovano spazio sui mass media.
I ragazzi, grazie anche alla maggiore quantità di tempo a disposizione rispetto agli adulti e ad una curiosità ancora vivissima, spesso riescono con questi dispositivi a sorprenderci. Però, la comprensione che hanno di una tecnologia più complessa di qualunque altra costruita dall’uomo è solo apparente, in assenza di un’adeguata istruzione. Chiedete nelle scuole la differenza tra Google (il motore di ricerca) ed Internet e vedrete. Per carità, gli esseri umani sono così intelligenti che possono usare il mondo intorno a loro anche senza una spiegazione razionale completa di come funziona, ma in questo caso non si tratta di un “libro della natura” difficile da leggere, ma di un’infrastruttura tecnologica estremamente complessa, costruita da persone per le persone, in cui l’alternativa è tra creare il proprio futuro o farselo imporre.
A questo si aggiunge la difficoltà, per precise scelte di mercato dei produttori dei dispositivi informatici moderni, di “mettere le mani in pasta” per “vedere che accade se”. Nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale, il tessuto produttivo del Paese è stato riscostruito anche grazie al fatto che una gioventù intraprendente poteva smontare, studiare e rimontare macchinari, per riprodurli e migliorarli. Tutto questo è impossibile con le soluzioni “chiavi in mano” degli strumenti smart di oggi ed è uno dei motivi per i quali, invece soluzioni “aperte” sia a livello hardware (tipo Arduino) che software (tipo Linux) dovrebbero essere lo standard assoluto per la scuola.
Concludo osservando che non è solo la complessità della tecnologia che sfugge ai cosiddetti “nativi digitali” e non può essere conseguita da un semplice corso di coding. Il “pensare come un informatico”, cioè il possedere quegli strumenti intellettuali che rimangono dopo aver studiato informatica, è necessario per capire che l’automazione produttiva derivante dall’informatica (la cosiddetta “impresa digitale”) è radicalmente diversa dalla tradizionale automazione industriale.
Quest’ultima è stata essenzialmente la sostituzione dell’azione fisica delle persone con la forza delle macchine, sotto la guida delle facoltà cognitive delle persone. L’automazione digitale è la sostituzione dell’intelligenza umana con una macchina: si tratta di un drammatico cambiamento di paradigma che la società contemporanea non ha ancora pienamente assorbito e compreso. Una delle capacità essenziali dell’intelligenza umana è l’adattabilità ai cambiamenti dell’ambiente, la flessibilità nel gestire esigenze nuove o modificate. Le persone hanno una capacità innata di evolversi per fronteggiare l’evoluzione e di imparare dagli errori. I sistemi informatici non ce l’hanno.
Riprendendo una metafora introdotta da Umberto Eco, i sistemi informatici sono come quel “Funes el memorioso” descritto da Jorge Luis Borges, che era in grado di ricordare e correlare ogni più minimo dettaglio della sua esistenza ma quasi incapace di idee generali, di pensare. In un mondo in cui non è più necessario ricordare, perché ogni informazione è facilmente reperibile, in cui la manipolazione di simboli può essere ripetuta a velocità fantastica ed a costi irrisori, la capacità di porsi le giuste domande e di trovare soluzioni innovative è ciò che farà la differenza. L’informatica (la scienza, non la tecnologia) è una (non l’unica) palestra potente. L’istruzione umanistica è un’altra.
Senza esaltare né demonizzare l’uso delle tecnologie digitali in classe, scenario complesso da affrontare con un approccio critico-problematico, è bene ricordare che vi sono evidenze scientifiche che la disponibilità di strumenti che ci consentono di essere sempre connessi disturba le capacità cognitive (il cosiddetto effetto brain drain). Non è un caso che in quella Silicon Valley le cui invenzioni hanno reso il futuro presente, da molti anni ormai i figli della classe dirigente studiano in scuole senza smartphone né tablet ma con libri di carta e laboratori.
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Versione originale pubblicata su "Il Fatto Quotidiano" il 17 ottobre 2017.