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sabato 29 marzo 2025

A passeggio con l’informatica #25 – Informatica e mondo del lavoro

di Enrico Nardelli

Dopo aver concluso con il precedente articolo alcune riflessioni sull’intreccio sempre più fitto tra la dimensione digitale e le altre dimensioni rilevanti per la società umana, iniziamo con questo a discutere lo specifico campo del mondo del lavoro. Le tecnologie digitali sono infatti uno dei fattori che più ha contribuito all’aumento di produttività degli ultimi decenni.

Da parecchi anni in Europa si sente quindi parlare dell’importanza di sviluppare competenze digitali nella forza-lavoro, in modo che i vari settori produttivi e dei servizi diventino più efficaci ed efficienti. Però, se non si capisce che l’informatica è nulla senza il controllo dell’uomo, continueremo a sprecare milioni di euro. La tradizionale automazione industriale ha dapprima sostituito l’azione fisica delle persone con la forza delle macchine, sotto la guida delle facoltà cognitive delle persone. Poi ha meccanizzato con successo compiti burocratici di bassa complessità cognitiva: trasferire denaro da un conto a un altro, acquistare un bene ed effettuarne il pagamento, controllare il livello delle scorte e ordinarne il rimpiazzo. Adesso sono in gioco compiti cognitivi più complessi: l’automazione dell’informatica, soprattutto con l’impetuoso sviluppo dell’intelligenza artificiale generativa (IAG), sta tentando di sostituire l’intelligenza umana con una macchina.

Però, l’automazione dell’informatica, anche quando si mette in campo l’IAG, da sola non basta. Non è infatti sufficiente digitalizzare i processi aziendali o integrarli con strumenti di IAG, perché il mese dopo che i sistemi informatici sono stati installati dovranno essere modificati per adattarsi alle mutate condizioni di contesto. E questo processo di manutenzione va avanti senza fine, perché un sistema informatico non è un essere umano che si adatta alle novità e impara dai suoi errori. Neanche gli strumenti di IAG hanno queste capacità di apprendimento totalmente autonomo, nonostante la propaganda commerciale. L'automazione dell’informatica richiede quindi la supervisione delle persone, per ottenere quella flessibilità che i sistemi informatici non possiedono. Troppo spesso, invece, si è considerata prima l’informatica e adesso l’IAG solo come un facile modo di tagliare sui costi (cioè avere meno personale). Non si riesce a capire che quel chilo e mezzo scarso di materia grigia che hanno le persone ha una capacità di adattamento e di comprensione delle situazioni che neanche la tonnellata e mezzo del supercalcolatore Watson riesce a eguagliare. Oltretutto con un costo enormemente inferiore. È appena del mese scorso la notizia che una società internazionale leader nei pagamenti digitali, che aveva pensato di sostituire il suo personale del servizio di supporto ai clienti con strumenti di IAG ha annullato questa decisione con le parole: «Nel mondo dell’intelligenza artificiale niente ha così valore come le persone! ».

Questa considerazione è suffragata anche da studi economici (trovate i riferimenti nel libro La rivoluzione informatica) che evidenziano che le aziende che non hanno competenze informatiche possono difficilmente migliorare la loro produttività semplicemente investendo nelle tecnologie digitali. Esse hanno bisogno di un appropriato livello di investimento in servizi di supporto, o creando internamente settori con le necessarie competenze oppure acquisendole dall’esterno. Io sono convinto che la prima sia la scelta migliore, perché il flusso dei dati e delle informazioni che essi veicolano è sempre stata la linfa vitale di ogni organizzazione, fattore essenziale per l’efficacia e l’efficienza di ogni sua attività. Ogni persona con responsabilità strategiche o direttive lo sa bene, e la possibilità di trattarli automaticamente mediante l’informatica è un fattore chiave per la competitività. È quindi certamente meglio avere al proprio interno le competenze professionali necessarie.

L'automazione realizzata dalle tecnologie dell'informazione comporta però un salto culturale e concettuale, che richiede un appropriato accompagnamento e un’adeguata preparazione delle persone coinvolte. Proprio per la sua profonda portata concettuale, questo tema non può quindi essere compreso appieno soltanto con qualche corso di formazione sulle competenze digitali. Questo è uno dei motivi per cui la trasformazione digitale sarà lunga e difficile: bisogna aver assorbito idee e concetti, più che conoscere strumenti ed essere abili nell’usarli.

Purtroppo la rivoluzione dell’informatica, diversamente dalla rivoluzione industriale, è avvenuta nel giro di una stessa generazione. Ricordate il 1993? Nella vita dell’uomo della strada non c’erano i social media, nelle aziende si iniziava a usare la posta elettronica, giornali e televisioni erano ancora i signori incontrastati dei media. Ormai trent’anni dopo queste situazioni sono completamente cambiate, mentre l’essere umano è sempre lo stesso, non ha ancora sviluppato una sufficiente consapevolezza nei confronti del mondo digitale, in cui si trova però improvvisamente immerso fino al collo.

Il sistema Italia non riuscirà a usare l’informatica per migliorare il suo futuro se, insieme alle più immediate misure di alfabetizzazione, non si interviene per far crescere la cultura dell’informatica e, in parallelo e da subito, non si definiscono azioni per liberare le potenzialità dell’informatica nel rivitalizzare e ridare competitività al sistema produttivo.

La carenza di vera cultura informatica è ovviamente solo l’esempio più eclatante del generale stato di declino in Italia della cultura scientifica, ormai protrattosi per troppo tempo per un paese avanzato. Ritengo che sia particolarmente grave a causa della natura strategica dell’informatica nel sistema produttivo di un paese che fa parte, non dimentichiamolo, dei sette paesi più industrializzati del mondo.

Una componente indispensabile per un reale ed efficace rilancio dell’economia italiana nel prossimo futuro è quindi l’utilizzo flessibile e adattivo dell’informatica per continuare a sviluppare prodotti e servizi di alto livello ed elevato valore aggiunto in un’ottica artigianale – per quanto attiene agli aspetti qualitativi – ma con un approccio industriale dal punto di vista della filiera produttiva e di distribuzione.

Per conseguire questo obiettivo è necessario che la cultura dell’informatica sia diffusa a tutti i livelli, in modo tale che nel nostro Paese si sviluppi un comparto industriale di “lavoratori della conoscenza” in grado di realizzare a costi competitivi quei sistemi informatici altamente specializzati e personalizzati che sono necessari a questo tipo di economia, assicurando nel contempo capacità di mantenerli e adattarli flessibilmente al variare continuo delle esigenze del mercato e della società.

Un passo necessario per raggiungere questo obiettivo è quello di cominciare a insegnare informatica fin dai primi anni di scuola, come nel Novembre 2023 è stato raccomandato anche dal Consiglio dell’Unione Europea. Finalmente, è notizia di pochi giorni fa, il Ministero dell’Istruzione e del Merito ha proposta una revisione delle Indicazioni Nazionali per la scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione che vede l’inserimento dell’informatica come disciplina di studio. Anche il nostro Paese si sta quindi avviando lungo una strada che è essenziale percorrere per essere protagonisti in una società sempre digitale.

Proseguiremo nel prossimo articolo le riflessioni sull’uso dell’informatica nel mondo lavorativo.

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Versione originale pubblicata da "Osservatorio sullo Stato digitale" dell'IRPA - Istituto di Ricerche sulla Pubblica Amministrazione il 26 marzo 2025.

sabato 22 marzo 2025

A passeggio con l’informatica #24 – Dati digitali e vita reale

di Enrico Nardelli

Nell’articolo precedente abbiamo discusso l’importanza di mantenere un approccio basato sul rispetto dell’uomo, sia dal punto di vista personale che sociale, nel considerare lo sviluppo delle tecnologie informatiche. Dopo l’ubriacatura dei primi vent’anni di questo secolo, quando sembrava che gli strumenti digitali ci stessero portando in una specie di società ideale, abbiamo cominciato a renderci conto dei problemi connessi con la misurazione digitale di ogni aspetto della nostra vita. Per reazione, questo sta dando sempre più importanza agli aspetti intrinsecamente non misurabili della nostra esistenza, attribuendo ad essi un valore sempre maggiore. Le relazioni personali, il contatto con la natura, il senso dell’identità e della tradizione stanno recuperando terreno e diventando spazi nei quali, sempre più attivamente, ci rifugiamo per sfuggire al controllo digitale.

Il distacco dalla tecnologia digitale è il segno distintivo delle élite che hanno maggiormente contribuito alla diffusione di strumenti che – come vediamo dalle discussioni sempre più accese e polarizzate che occupano i social media – stanno minando i valori fondanti delle società evolute: la comprensione reciproca, la solidarietà, la compassione, il sostegno e la protezione per i più deboli. Non solo, ci sono ormai da qualche anno evidenze sempre più importanti delle conseguenze negative di un uso troppo precoce di smartphone e social media. Si veda, ad esempio, il rapporto finale della 7a Commissione Permanente del Senato “Sull’impatto del digitale sugli studenti, con particolare riferimento ai processi di apprendimento” del giugno 2021.

La tecnologia digitale non implica intrinsecamente un suo utilizzo in modo anti-sociale, ma se lo sviluppo è guidato unicamente da valori economici senza essere contemperato da un approccio pro-sociale, l’atomizzazione dei comportamenti che essa favorisce, giacché si può far tutto attraverso uno smartphone, rischia di far regredire l’umanità alla situazione dell’homo homini lupus.

D'altra parte, è vero che abbiamo spostato gran parte della nostra vita nel regno in cui dominano queste macchine cognitive disincarnate. Di conseguenza, la nostra esistenza si sviluppa ormai non solo lungo le consuete dimensioni relazionali (economica, giuridica, culturale…) ma si articola anche in questa dimensione incorporea delle “rappresentazioni”, sempre più rilevante dal punto di vista sociale.

Non è un fatto del tutto nuovo. L'umanità ha registrato dati sul mondo per migliaia se non decine di migliaia di anni. Tuttavia, da componente del tutto trascurabile della nostra esistenza, le rappresentazioni dei dati ne sono diventate una parte rilevante e importante. Anche se la maggior parte dei dati digitali che creiamo hanno un uso effimero senza essere conservati permanentemente, la quantità di dati raccolti ha raggiunto livelli incredibili. Nel 2025, il totale dei dati digitali archiviati in tutto il mondo dovrebbe raggiungere, secondo diverse stime i 200 Zettabyte, cioè 200 miliardi di Terabyte, ovvero 200 milioni di milioni di Gigabyte. Sono valori che non riusciamo neanche a immaginare.

Come purtroppo ci ha insegnato l'emergenza sanitaria del 2020, non possiamo più ignorare la rappresentazione digitale dei dati che ci riguardano. Essi sono diventati una componente integrante e costitutiva della nostra vita personale e sociale. Da qui la necessità di tutelare i diritti delle persone non solo per quanto riguarda il loro corpo e il loro spirito, ma anche per le loro proiezioni digitali. Nel mio volume La rivoluzione informatica ho argomentato che sarebbe necessaria una tutela di livello costituzionale, modificando l’articolo 2 in modo che riconosca non solo la protezione dei diritti ma anche il soddisfacimento dei doveri nel mondo digitale. Questa sarebbe la nuova versione proposta (in neretto la parte aggiunta): “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali che nei contesti digitali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”.

Per chiudere, ricordo che l’assenza nelle macchine cognitive di un corpo fisico ha una controparte duale nel fatto che questa dimensione digitale della nostra esistenza è popolata da “forme di vita” per le quali non abbiamo sensori di rilevazione. I virus e i worm digitali, che non sono benigni nei confronti del nostro “sé digitale”, proprio come le loro controparti biologiche non sono benevole per i nostri corpi fisici, continuano a diffondersi a un ritmo allarmante senza che siamo in grado di contrastarli efficacemente. Avremmo infatti bisogno della versione digitale di quelle norme igieniche che tanto ruolo hanno avuto nel miglioramento delle condizioni di vita nel Novecento . Ancora una volta, è solo attraverso l'istruzione che possiamo fare la differenza, e si deve iniziare il prima possibile.

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Versione originale pubblicata da "Osservatorio sullo Stato digitale" dell'IRPA - Istituto di Ricerche sulla Pubblica Amministrazione il 19 marzo 2025.

sabato 15 marzo 2025

A passeggio con l’informatica #23 – Per una visione umanistica del digitale

di Enrico Nardelli

L’insegnamento dei princìpi dell’informatica dovrebbe iniziare fin dai primi anni di scuola. Si tratta di una posizione che la coalizione europea Informatics for All, che ho fondato insieme ad altri colleghi europei quando ero presidente di Informatics Europe, sostiene da molti anni. Recentemente, la richiesta è stata fatta propria dal Consiglio dell’Unione Europea, con la Raccomandazione del 23 novembre 2023 di cui abbiamo parlato proprio nella puntata di introduzione a questo percorso.

La nozione fondamentale che un sistema informatico opera senza alcuna comprensione, da parte del sistema stesso, di ciò che viene elaborato e di come viene elaborato, deve accompagnare l'intero processo educativo. Inoltre, dovrebbe sempre andare di pari passo con la riflessione che il processo di modellare la realtà in termini di dati digitali e di elaborarli mediante algoritmi è un'attività umana e, in quanto tale, può essere influenzata dal pregiudizio e dall'ignoranza, senza che l’individuo possa esserne consapevole. Solo così, infatti, diventa possibile comprendere che qualsiasi scelta, da quelle iniziali relative a quali elementi rappresentare e come rappresentarli, a quelle che determinano le regole del trattamento stesso, è frutto di un processo decisionale umano ed è quindi privo di quell’oggettività che troppo spesso è associata ai processi decisionali algoritmici.

A livello scientifico nel maggio 2019 è nato – anche con il contributo dell’Autore – un movimento che ha prodotto il Manifesto di Vienna per l’Umanesimo Digitale, che ricorda come le tecnologie digitali «stanno minando la società e mettendo in discussione la nostra comprensione di cosa significhi essere umani ». Il Manifesto ricorda che la posta in gioco è alta e l’obiettivo di costruire una società giusta e democratica in cui le persone siano al centro del progresso tecnologico è una sfida da affrontare con determinazione e creatività.

Come tutte le tecnologie, anche quelle digitali non emergono dal nulla. Sono modellate da scelte implicite ed esplicite e, quindi, incorporano un insieme di valori e interessi relativi al nostro mondo. L’insegnamento dell'informatica e la riflessione sul suo influsso sulla società devono quindi iniziare il prima possibile. Gli studenti dovrebbero imparare a unire le competenze informatiche con la consapevolezza delle questioni etiche e sociali in gioco.

Il Manifesto ribadisce l’importanza di sviluppare e progettare le tecnologie digitali in base ai valori e ai bisogni umani quali: democrazia, inclusione, rispetto della privacy, libertà di espressione, valorizzazione delle diversità, uguaglianza ed equità, trasparenza.

Sottolinea inoltre l’importanza di far crescere la consapevolezza sul fatto che le decisioni rilevanti che riguardano gli esseri umani debbano sempre essere prese dalle persone e non dagli algoritmi.

Quest’ultimo è un punto della massima importanza. Infatti, come ha osservato Giuseppe Longo (valente informatico italiano che opera in Francia da molti anni), la distinzione fondamentale introdotta da Alan Turing tra hardware e software, se applicata agli esseri viventi e alla società è una «follia computazionale ». Primo, perché nel mondo biologico non esiste una tale distinzione tra hardware e software. Il DNA, il codice della vita, costituisce il suo stesso hardware. La riscrittura delle rappresentazioni che avviene nelle macchine digitali unicamente attraverso il software è in questo senso diversa dalla trascrizione dal DNA all'RNA che avviene in biologia.

In secondo luogo, perché le fluttuazioni sono completamente assenti nel mondo discreto in cui operano le macchine di Turing, mentre svolgono un ruolo essenziale nei complessi sistemi dinamici che ci circondano. Come notato per la prima volta dal grande matematico francese Henri Poincaré, ciò può risultare nell'imprevedibilità dell’evoluzione di tali sistemi, anche se le leggi che li caratterizzano sono definite deterministicamente.

Terzo, perché un qualunque software è in grado di rappresentare solo un'astrazione di un fenomeno reale. Se questa astrazione può fornire indicazioni preziose sulla sua dinamica, considerare la rappresentazione come il fenomeno stesso è tanto sbagliato quanto confondere la mappa col territorio.

E, infine, i sistemi digitali, una volta posti nelle stesse condizioni di partenza all'interno di uno stesso contesto, calcoleranno in modo identico sempre lo stesso risultato, anche per quei sistemi complessi dove (come ha dimostrato Poincaré) questo è fisicamente assurdo. «Le reti informatiche e le banche dati, se considerate come ultimo strumento di conoscenza o come immagine del mondo » scrive Longo «vivono nell'incubo della conoscenza esatta per puro conteggio, della certezza incrollabile per esatta iterazione, e di una “soluzione finale” di tutti i problemi scientifici ».

Da un punto di vista matematico-fisico, questo atteggiamento è fallace, per diversi motivi. In primo luogo, perché i nostri comportamenti accadono in uno spazio continuo e, come Poincaré aveva per primo intuito, nell’approssimazione che ogni misura compie rispetto a un valore continuo si annida l’impredicibilità dei fenomeni fisici.

In secondo luogo, la quantità di “dimensioni” mediante le quali possiamo “misurare” il nostro comportamento è presumibilmente infinita. In altre parole, un nostro comportamento puntuale potrebbe aver bisogno di un numero infinito di valori per poter essere rappresentato (ognuno dei quali sarebbe comunque sottoposto all’approssimazione precedentemente descritta). Ne consegue, quindi, che nessun dispositivo digitale reale, che è finito, potrebbe fisicamente rappresentare tale quantità infinita di valori, introducendo pertanto una seconda tipologia di approssimazione.

Le conseguenze sociali di questo approccio culturale possono però essere effettivamente terrificanti, come diceva David Bowie nell’intervista ricordata nel precedente post. Questa tendenza, sostenuta da una raccolta dei dati relativi alle nostre attività sempre più pervasiva e sempre più sfuggente al nostro controllo, porta a ridurre l’essere umano a una serie di dati, spingendolo ad agire da meccanismo automatico che ripercorre sempre gli stessi schemi di comportamento. Viene in mente il celeberrimo film “The Truman show”, il cui protagonista era marionetta inconsapevole di una sceneggiatura scritta da altri.

Non sfuggiranno certo al lettore attento i pericoli in termini di controllo sociale che si nascondono dietro il dare per scontata questa visione meccanicistica della società umana, che riconduce l’infinita e sfumata complessità delle nostre esperienze a un insieme finito di bit distinti.

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Versione originale pubblicata da "Osservatorio sullo Stato digitale" dell'IRPA - Istituto di Ricerche sulla Pubblica Amministrazione il 12 marzo 2025.

sabato 8 marzo 2025

A passeggio con l’informatica #22 – Si fa presto a dire digitale

di Enrico Nardelli

Dopo aver esaminato negli ultimi articoli prima di questo il significato della rivoluzione informatica, i vari significati del termine intelligenza per le macchine e per l’uomo, e l’importanza di non concentrarsi solo sui temi di moda, inizio ad affrontare con questo post le sfide che ci vengono poste dalla crescita e dallo viluppo della società digitale, citando alcuni riferimenti storici.

A fine 2019 abbiamo celebrato i 50 anni della “rete delle reti”, quell’Internet la cui data di nascita è stata convenzionalmente fissata al 29 ottobre 1969, quando il primo collegamento tra computer remoti fu stabilito tra un calcolatore della UCLA (Università della California a Los Angeles) e uno dello SRI (Stanford Research Institute). Con quella prima trasmissione era nata Arpanet, la rete di comunicazione tra calcolatori il cui sviluppo fu finanziato dal Ministero della Difesa americano per dotare il Paese di un sistema di comunicazione estremamente resistente agli attacchi nemici, che negli anni 90 sarebbe diventata Internet e che – grazie anche alla diffusione planetaria del World Wide Web – nel primo decennio del nuovo secolo avrebbe superato il miliardo di utenti.

La prima pietra di una rivoluzione sociale, oltre che tecnologica, era stata posata, anche se per diversi decenni è sembrato che fosse solo uno strumento. Ma un artista visionario come David Bowie, nel corso di un’intervista alla BBC del 1999, la definì «una forma di vita aliena, … la nascita di qualcosa di esaltante e terrificante » . Spesso gli artisti vedono con chiarezza ciò che scienziati e tecnologi non riescono ad afferrare bene, soprattutto quando si parla dell’impatto sociale delle loro scoperte. Gioca a loro favore l’essere più allenati a cogliere queste sfumature delle conseguenze del progresso sulle persone e sulle relazioni umane, ma va anche tenuto presente che si tratta comunque di pronostici estremamente difficili.

Quest’anno ricorrono i 70 anni dell’introduzione del termine “intelligenza artificiale”, apparso nella proposta di ricerca che mirava a ottenere un «significativo avanzamento» di «ogni aspetto dell’apprendimento o di ogni altra caratteristica dell’intelligenza » lavorandoci «con un gruppo attentamente selezionato di scienziati per un’estate ». Sicuramente sono stati fatti enormi progressi, ma è ancora presto per dire in che misura essa determinerà un cambiamento della società così importante quale quello determinato dall’avvento di Internet.

È infatti difficilissimo capire dove le tecnologie informatiche ci porteranno, non dico tra 50 anni, ma anche solo tra 10 o 20. Basti pensare che nel 1999 Amazon stava muovendo i primi passi, Google era appena nato e Facebook non era ancora stato concepito.

Il vero problema è che ci stiamo dimenticando che l’uomo dovrebbe sempre rimanere il fuoco di ogni iniziativa di progresso tecnologico, mentre queste novità digitali che sembrava dovessero portarci in un futuro migliore stanno viceversa ingabbiando sempre di più la nostra vita quotidiana. La digitalizzazione apre opportunità senza precedenti alla società, ma pone anche serie preoccupazioni.

Si tratta di una sfida prima di tutto sociale e politica e solo in seconda istanza scientifica o tecnologica, perché la dimensione digitale è ormai sempre più intrecciata con le varie dimensioni sociali, che coprono tutti i vari rapporti (economici, giuridici, culturali, …) che si stabiliscono tra le persone . Questa dimensione, che è quella in cui sono presenti i dati digitalizzati, definisce quindi uno spazio sociale che, come tale, può essere costruito secondo diverse visioni. Ritengo quindi del tutto naturale che i governi vogliano attuare la loro attività di indirizzo e gestione anche nei confronti del digitale.

Così come ogni nazione protegge le proprie risorse naturali così dovrebbe fare con quelle digitali, inclusi i dati dei propri cittadini. Quando nel 2019 ho cominciato a sollevare l’attenzione su questi temi, molti li minimizzavano etichettandoli come “populisti” e “sovranisti”, mentre adesso sono diventati rilevanti.

Ritenevo e ritengo assolutamente legittimo e doveroso che uno Stato governi lo spazio digitale così come governa lo spazio fisico, visto che mondo naturale e mondo digitale sono ormai compenetrati e vanno gestiti insieme. Nella società digitale chi controlla i dati controlla la società.

Come diremmo se i governanti vendessero i propri cittadini a poteri stranieri? È lecito che questo accada nella dimensione digitale? A quali fini deve essere asservito il controllo e il governo di infrastrutture e dati digitali? Si ripete spesso negli ultimi anni che “i dati sono il nuovo petrolio”. Ma se questi dati sono quelli delle persone è corretto (socialmente, eticamente e politicamente) considerarli come una merce? Le persone sono una merce? C’è una scarsissima consapevolezza di questi aspetti, se in un famoso esperimento un negozio ha venduto oggetti a clienti che pagavano . Chiedo scusa in anticipo se il paragone è macabro, ma vi privereste di un dito per comprare un’automobile?

Aggiungo una notazione di tipo psicologico a proposito dei fanatici del digitale, entusiasti di poter registrare e tenere sotto controllo ogni loro attività. Passare dal tracciamento dei battiti cardiaci durante la corsa a un controllo sanitario totale ogni anno, o da una semplice telecamera di sorveglianza alla porta di ingresso a una rete di sentinelle robotiche è solo una questione di denaro. Farlo dà l’illusione di poter controllare il futuro, rimuovendo le minacce esistenziali. Ma non è un comportamento produttivo.

Come per altri grandi temi sociali, è compito della politica decidere cosa fare. Nella sfera del digitale, io sono solito ricordare una citazione di Evgenj Morozov (sociologo di origine bielorussa tra i più acuti e profondi nell’analisi del mondo digitale) che nel suo libro “I signori del silicio” ha scritto «per un partito di massa odierno, non curarsi della propria responsabilità sul digitale equivale a non curarsi della propria responsabilità sul futuro stesso della democrazia ».

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Versione originale pubblicata da "Osservatorio sullo Stato digitale" dell'IRPA - Istituto di Ricerche sulla Pubblica Amministrazione il 5 marzo 2025.

sabato 1 marzo 2025

A passeggio con l’informatica #21 – Non di sola IA vive un Paese

di Enrico Nardelli

Abbiamo discusso nel post precedente alcuni aspetti che sono esclusivi dell’intelligenza umana, in quanto espressione di una mente incarnata in un corpo fisico con le caratteristiche della nostra razza umana.

Aggiungo qui solo un accenno al fatto che vi sono poi tutta una serie di altri valori, che possiamo chiamare di “intelligenza sociale”, che danno senso alle società umane in quanto fatte da persone, quali, ad esempio, la compassione, la solidarietà, l’immaginazione, l’umorismo, e così via, che mi appaiano anche questi totalmente al di fuori della portata delle macchine cognitive, in generale, e in particolare di quelle che posseggono ciò che chiamo intelligenza meccanica, universalmente nota come intelligenza artificiale.

Nonostante queste limitazioni, le macchine cognitive – e in modo particolare quelle che utilizzano le tecniche dell’intelligenza artificiale – si diffonderanno sempre di più, per la loro indubbia utilità, mentre le persone cambieranno il tipo di lavoro che fanno. Ciò va inteso nel senso che il loro lavoro vedrà in misura sempre maggiore l’utilizzo di macchine cognitive, per coadiuvare l’uomo nelle attività intellettuali di routine. Si tratta di un processo analogo a ciò che è accaduto in passato, sia recente che remoto, con sempre più lavoro manuale, precedentemente svolto direttamente dall’uomo, sempre più affidato a macchine industriali, mentre l’uomo manteneva un ruolo di controllo e supervisione.

Per questo è della massima importanza che ogni persona sia appropriatamente istruita e formata sulle basi dell’informatica, la disciplina scientifica che rende possibile la progettazione e realizzazione delle macchine cognitive. Solo in questo modo ognuno sarà in grado di capire la differenza tra ciò che tali macchine possono fare e ciò che non devono fare. Infatti, mentre la terza rivoluzione dei rapporti di potere ha consegnato alle macchine cognitive il predominio sulla specie umana nella dimensione della razionalità pura, nella società umana ci sono molte altre dimensioni altamente rilevanti oltre a questa, l’unica in cui agiscono le macchine cognitive. Affinché l’umanità possa continuare a dirigere e governare il proprio futuro dovrà fare attenzione a non perdere la consapevolezza di questa sua specificità. A tal scopo, è necessaria una corretta formazione sin dai primi anni di scuola sulle basi scientifiche dell’informatica e sull’impatto sociale delle sue tecnologie. Riprenderemo il tema di come governare nel miglior interesse dell’umanità lo sviluppo dei sistemi informatici in un successivo articolo.

Richiamo l’attenzione su un aspetto particolarmente importante in questo momento, in cui i sistemi di intelligenza artificiale sono sulla bocca di tutti per le loro impressionanti prestazioni, che sono dovute all’enorme quantità di dati disponibili, agli avanzamenti nella tecnologia dei processori e ai progressi delle tecniche algoritmiche dell’apprendimento profondo (deep learning ). Si tratta di ritenere che un Paese per essere all’avanguardia nella società digitale abbia bisogno solo di “sistemi intelligenti”. Nella storia della tecnologia in generale e di quella informatica in particolare, vi sono momenti nei quali sembra che un certo approccio sia quello assolutamente vincente, salvo poi scoprire, magari dopo una decina d’anni, che si è un po’ esagerato.

Non sto assolutamente negando l’importanza di questo settore dell’informatica, ed è vitale investire in esso, ma non possiamo dimenticarci che alla base di tutto il mondo digitale ci sono i “normali” sistemi informatici, il cui stato di realizzazione lascia molto a desiderare e ai quali bisognerebbe fare molta più attenzione. In molte nazioni che nell’ultimo decennio hanno cominciato a stanziare somme molto ingenti di denaro per la ricerca nell’area dell’intelligenza artificiale, gli analisti più attenti hanno osservato che tali sforzi non devono accadere a discapito del miglioramento di sistemi informatici che non funzionano proprio come dovrebbero. Investire solo sulla realizzazione di sistemi basati sull’apprendimento automatico (machine learning ), quando l’informatizzazione tradizionale ancora non funziona come dovrebbe, è un po’ come comprarsi una Ferrari dimenticandosi di avere scarpe bucate e vestiti rovinati.

Per un professionista o una piccola azienda penso che sia più molto più rilevante avere la capacità di organizzare efficacemente i propri dati in modo autonomo e di poter realizzare semplici elaborazioni con programmi informatici sviluppati da soli. È di queste competenze di base, analoghe a quelle di saper scrivere una relazione o mantenere una semplice contabilità, che ritengo ci sia bisogno per attuare sul serio la trasformazione digitale, più che di intelligenza artificiale o di una delle molte parole inglesi alla moda che si sentono sempre più frequentemente sui media in questi anni.

Riprenderemo il tema dell’impatto dell’informatica sul mondo del lavoro in un prossimo post.

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Versione originale pubblicata da "Osservatorio sullo Stato digitale" dell'IRPA - Istituto di Ricerche sulla Pubblica Amministrazione il 26 febbraio 2025.