Pagine

sabato 24 maggio 2025

A passeggio con l'informatica #33 – Governare la trasformazione digitale nell’interesse nazionale (seconda parte)

precedente #32 –––         

di Enrico Nardelli

Abbiamo iniziato a riflettere nel precedente post sulla necessità di una seria azione politica per governare la trasformazione digitale, analizzando il settore delle infrastrutture, il problema della gestione dei dati e il caso della formazione. La riprendiamo e concludiamo con questo post, che è anche l’ultimo della serie: invito chi volesse approfondire i temi trattati in questa “passeggiata” alla lettura del mio volume La rivoluzione informatica.

Nella Pubblica Amministrazione (PA) si continua a sostenere l'importanza della trasformazione digitale, senza però comprendere che generali senza adeguati eserciti non possono nulla. In assenza di un significativo numero di assunzioni di diplomati e laureati in informatica, efficienza ed efficacia della PA non riusciranno a migliorare. E mentre sono sicuro che i “soldati digitali” escono ben formati dalle nostre scuole e università, che preparano diplomati e laureati in informatica che si fanno onore dovunque nel mondo, ho qualche dubbio che la pubblica dirigenza sia generalmente in grado di capire l'importanza e le implicazioni di usare l'informatica nelle organizzazioni. In molti, troppi, ministeri ed enti pubblici si è rimasti fermi a una visione dell’informatica come meccanizzazione “a silos” di singole funzioni di elaborazione dati, slegate da una visione globale e di processo delle relazioni tra l’organizzazione in sé, le sue interfacce nella rete della PA e i cittadini. Il tutto complicato da una visione tradizionale dell’automazione, secondo la quale una volta che l’esecuzione di una funzione sia stata affidata a una macchina, il problema si possa considerare risolto. Nel caso dell’informatica non è così, la vera informatizzazione dei servizi è sempre in fase di manutenzione (si veda il post Come affrontare la trasformazione digitale), perché è la realtà a essere in continua evoluzione. Ma se non si hanno “in casa” le persone in grado di realizzare questa manutenzione, se si deve ricorrere continuamente al fornitore esterno, costi e tempi lievitano in modo intollerabile.

Nel settore privato abbiamo ancora una carenza culturale, discussa nel post Informatica e mondo del lavoro, che ha sinora frenato il sistema produttivo. Ma c’è anche un’altra importante considerazione. Il nostro tessuto industriale è costituito in maggioranza da micro e mini imprese, che hanno fatto di creatività, flessibilità e velocità la chiave per arrivare, da paese sconfitto e distrutto dopo la seconda guerra mondiale a settima potenza industriale al mondo. Queste non usano tecnologie digitali o le usano poco non perché – come dice qualcuno – sono pervase dal “familismo amorale” o non ne hanno capito il potenziale di vantaggio competitivo, ma perché sistemi informatici troppo rigidi costituirebbero la melassa che li ucciderebbe rapidamente.

Il tipico industriale italiano – per niente stupido e che della flessibilità e velocità di cambiamento ha fatto la sua arma strategica – l'ha intuito e ne è stato alla larga: primum vivere! Ha capito che l'unica informatica buona è quella “personalizzata” che accompagna l'azienda in modo flessibile, come se fosse una persona, ma che è in grado di lavorare senza stancarsi e senza sbagliare, come purtroppo accade alle persone. E questo non si può ottenere semplicemente comprando soluzioni “chiavi in mano”, come è avvenuto per le precedenti innovazioni tecnologiche, ma si ottiene soltanto se si hanno a disposizione i tecnici in grado di sviluppare tali personalizzazioni man mano che si presenta la necessità. Mentre gli imprenditori sono sempre stati agili nel modernizzare le linee produttive ogni qualvolta hanno intravisto un’opportunità di mercato, nel caso dell’automazione digitale sono prudentemente rimasti alla finestra, capendo il pericolo della sua rigidità che rischiava di far loro sprecare risorse economiche.

Il problema quindi non è solo della cultura delle imprese, ma anche della visione della politica. Erogare finanziamenti pubblici per la trasformazione digitale delle imprese può essere una misura positiva, ma se poi si concretizza nel comprare soprattutto macchinari e soluzioni estere, è difficile che possa contribuire al rilancio del Paese.

Accanto alla definizione di un modello di sviluppo pensato nell’interesse della crescita dell’intero Paese, andrebbe attuato un massiccio programma di supporto alla formazione dei lavoratori attivi, che non può limitarsi alle pur necessarie competenze digitali dell’utente finale ma che dia loro gli strumenti concettuali e culturali necessari affinché il Sistema Italia sia competitivo in quest’ambito.

Tutto questo non dovrebbe essere così difficile da capire, per chi fa politica. E io so benissimo che i politici – contrariamente alla vulgata che li vuole mangiapane a ufo – sono super-impegnati a tutti i livelli, da quello locale a quello nazionale. Temo però che si stia trascurando un po’ troppo un settore che è strategico per il futuro del Paese. Il che non vuol dire lasciar fare ai tecnici. Al contrario, in ogni epoca e paese, chi ha voluto portare i tecnici al governo, presentandoli come sacerdoti dell’imparzialità, ha sempre in realtà voluto sottrarre al popolo (al demos) il potere (il cratos) di controllare l’operato del governo. Si è mosso quindi in modo anti-democratico. La tecnica del digitale non fa eccezione a questo. I sistemi informatici non sono intrinsecamente asettici. La trasformazione digitale non è garanzia assoluta di efficienza ed efficacia. La tecnica deve essere, come sempre, al servizio della politica per implementare questa o quella decisione.

La politica deve decidere come governare questa trasformazione digitale, ben sapendo che cambiamenti epocali di questa portata non si realizzano nei pochi anni di una legislatura e con piani irrealistici. Per questo è necessario un accordo trasversale su un disegno di sviluppo del Paese alla luce della rivoluzione informatica in atto che trovi tutti concordi, per lo meno su alcune linee guida fondamentali. Servono dunque politici che abbiano a cuore la democrazia e il futuro del nostro Paese, che siano in grado di ascoltare cosa la tecnica ha da offrire, di capire quale siano i possibili impatti sociali, e di comporre una sintesi delle esigenze delle diverse classi sociali nell’interesse di tutti.

Serve un'azione strategica di lungo periodo dello Stato, analoga quella svolta nel dopoguerra con l'IRI per ricostruire un tessuto industriale che sostenesse lo sviluppo del paese: è necessario un piano strategico per la “ricostruzione digitale”. Ricordo che l'IRI, con il suo modello di partenariato pubblico-privato, è stato ammirato in Europa come “terza via” per la crescita, tra mercato e nazionalizzazione.

Io sono convinto che, in tutti i partiti, ci siano persone di buona volontà e grande capacità politica. Insieme, possiamo farcela.

--
Versione originale pubblicata da "Osservatorio sullo Stato digitale" dell'IRPA - Istituto di Ricerche sulla Pubblica Amministrazione il 21 maggio 2025.

sabato 17 maggio 2025

A passeggio con l'informatica #32 – Governare la trasformazione digitale nell’interesse nazionale (prima parte)

di Enrico Nardelli

Come abbiamo discusso nel post “Si fa presto a dire digitale”, la dimensione digitale è ormai strettamente intrecciata con tutte le dimensioni della nostra esistenza e definisce uno spazio sociale che può essere costruito secondo diverse visioni. Ricordavamo per esempio nel precedente post come, da una visione della società in cui i modelli di riferimento per i giovani erano persone con attività lavorative che potevano essere svolte con buona soddisfazione economica dalla maggioranza delle persone, si sia passati a una visione in cui questi modelli sono le persone di grande talento (e grande fortuna, perché purtroppo tante volte il primo da solo non basta) con guadagni molto elevati, che però costituiscono una piccola minoranza della società.

Ecco, il punto è decidere quale visione della società scegliamo. Compito, questo, tipicamente politico, visto che l’attività politica (nel senso che gli dava Aristotele come una componente naturale dell’essere umano) è proprio il modo di decidere quali siano gli obiettivi da perseguire e i modi per farlo, nell’ambito delle comunità in cui abitualmente gli uomini si raccolgono, per venire incontro alle esigenze di tutti.

Nello stesso post “Si fa presto a dire digitale” ho riportato una citazione di Evgenj Morozov che nel suo libro “I signori del silicio” ha scritto «per un partito di massa odierno, non curarsi della propria responsabilità sul digitale equivale a non curarsi della propria responsabilità sul futuro stesso della democrazia». Negli ultimi dieci anni questa frase è diventata ancora più vera mentre, per lo meno in Italia, la politica – fin da quando negli anni ‘90 si cominciò a parlare di “società dell’informazione” – ha in gran parte inseguito i termini alla moda, baloccandosi con aspetti operativi, concedendo finanziamenti e prestiti per l’acquisizione di sistemi digitali “chiavi in mano”, che dopo sei mesi o un anno richiedono spese non trascurabili di aggiornamento. Servirebbe invece investire in modo intensivo sulla formazione di personale interno, che sia in grado di contribuire allo sviluppo di soluzioni digitali e farle evolvere in armonia con l’evoluzione degli scenari commerciali. Si tratta di un elemento essenziale per rilanciare lo sviluppo economico del Paese, tanto più rilevante, quanto più nell’economia cresce il peso dei servizi. Per non parlare poi del fatto che in alcuni settori strategici consegnare “le chiavi di casa” a uno sconosciuto non è proprio la soluzione più intelligente! Mentre nell’industria il costo degli impianti produttivi è una voce percentualmente significativa e direttamente proporzionale al volume della produzione per unità di tempo, nell’erogazione di servizi digitali i “mezzi di produzione” necessari sono costituiti essenzialmente dal cervello delle persone che sviluppano e aggiornano il software per la loro gestione, e sono sostanzialmente indipendenti dal numero degli utenti. Piattaforme tipo Uber and AirBnb ne sono la prova più eclatante.

Ma i servizi realizzati mediante sistemi digitali permettono di ottenere flessibilità e velocità di adattamento a costi contenuti solo a condizione che si sia in grado di farli evolvere “in casa” o quasi. Solo così si riescono a ottenere sistemi informatici che possono assicurare l’aumento di produttività delle aziende man mano che si evolvono. Per il nostro sistema produttivo, la sfida è su questo terreno, che non è un campo riservato solo ai “grandi”, visto che l’informatica – quando la si sa usare bene – permette di sfruttare vantaggiosamente anche nicchie di mercato molto piccole.

È inutile pensare di poter tornare indietro. La società diventerà sempre più digitale: in questo mondo le infrastrutture digitali costituiscono quello che è un sistema nervoso o scheletrico per i mammiferi. Il loro controllo deve essere in nostre mani affinché il nostro Paese non diventi una colonia. Serve capire che lo spazio digitale, come le soluzioni ad esso connesse, vanno curati nell'interesse della Nazione e dei suoi cittadini. Abbiamo bisogno di una politica che ritorni a esercitare per conto del popolo quella sovranità che l'ar­ticolo 1 della nostra Costituzione gli assegna, senza delegarla alle Big Tech che hanno riserve pressoché illimitate di risorse per perseguire i propri interessi.

Dobbiamo mantenere il controllo sui dati digitali dei cittadini, che nel mondo digitale sono l’equivalente dei cittadini stessi. È il controllo di questi dati ciò che fornisce potere nella società digitale. Dobbiamo evitare di lasciare questo controllo nelle mani di privati che perseguono obiettivi di business, perfettamente legittimi, ma che non possono prevaricare il bene comune. Dobbiamo sviluppare le capacità del Paese di realizzare servizi e sistemi informatici. Voglia di lavorare e cre­atività non ci sono mai mancate, e lo sviluppo del software non richiede forti investimenti di capitali. Richiede però un investimento in formazione, che deve cominciare da lontano, fin dalla scuola. Avremmo dovuto iniziare l’altro ieri, ma – in questo caso è proprio vero – non è mai troppo tardi. Come pensiamo di gestire la transizione digitale in Italia se non forniamo a tutti gli studenti un’istruzione di base in informatica? Ogni cittadino, nel vedere un qualunque macchinario non pensa più si tratti di una “diavoleria” perché ha studiato a scuola quei princìpi scientifici di base che gli permettono di capire che non ci sono “miracoli” nella tecnologia. Cosa aspettiamo a fare lo stesso per le macchine cognitive del digitale? Fortunatamente, sembra che almeno nella scuola con la revisione delle Indicazioni Nazionali per il primo ciclo dell’istruzione cominceremo a fare qualcosa di concreto. Sono passati 11 anni da quando, in collaborazione con il Ministero dell’Istruzione, abbiamo iniziato con il progetto Programma il Futuro a diffondere nelle scuole una formazione sui concetti di base dell’informatica, ma è proprio il caso di dire “meglio tardi che mai!”.

Termineremo la nostra analisi nel prossimo post.

--
Versione originale pubblicata da "Osservatorio sullo Stato digitale" dell'IRPA - Istituto di Ricerche sulla Pubblica Amministrazione il 14 maggio 2025.

sabato 10 maggio 2025

A passeggio con l’informatica #31 – Opportunità per tutti o per pochi?

di Enrico Nardelli

Ricordavamo, alla fine del precedente post, come le grandi multinazionali della tecnologia sono solite raccontare, per convincerci ad adottare le ultime soluzioni digitali, unicamente i loro aspetti positivi, ignorando o trascurando quelli negativi.

Uno dei primi casi in cui questo è accaduto è stato proprio agli inizi del secolo con la diffusione di Internet su larga scala. Si parlava allora della teoria della “Coda Lunga”, che a suo tempo conobbe una larga diffusione, forse anche perché si stava tentando di ridare un senso agli investimenti sulle tecnologie dell’informazione dopo lo scoppio della bolla delle dot com avvenuta tra il 2000 e il 2001. In base a questa teoria, la capacità della rete di diffondere velocemente consigli sugli acquisti a persone con gusti e preferenze simili, accoppiata al superamento dei limiti fisici alle scorte di magazzino e al numero di utenti fisicamente raggiungibili, avrebbe aperto a molti prodotti del settore dell’intrattenimento (dai libri ai dischi ai film) possibilità di sfruttamento irraggiungibili con modelli tradizionali. Si sarebbe passati da una situazione di scarsità, in cui solo pochi autori o produttori di best seller raggiungevano fama e ricchezza, a una di abbondanza in cui a molti creatori di contenuti sarebbe stato assicurato un livello di guadagno più che soddisfacente. Il motivo, veniva spiegato, è che le persone vogliono distinguersi e non soltanto seguire le mode, e quindi sono comunque interessate a prodotti editoriali di nicchia. La rete avrebbe permesso, indipendentemente da quanto era piccola questa nicchia, di trovarne gli abitanti e vendergli i prodotti. Ciò non era possibile, per i vincoli fisici sopra illustrati, con il modello di distribuzione precedente. Questa visione si è rivelata vera solo a metà.

Gli intermediari della distribuzione di tali prodotti editoriali, ognuno dei quali è diventato, nel suo settore, un monopolista, hanno trovato modo di guadagnare dalla vendita anche di pochissime copie (soprattutto se, come nel caso della musica e dei video, i prodotti sono diventati del tutto immateriali, quindi con costi risibili di gestione e pressoché nulli di conservazione). Questo si spiega con il fatto che – in aggregato – poche copie per migliaia o decine di migliaia di prodotti generano comunque valori economici significativi per i distributori. D’altro canto, invece, per la maggior parte dei creatori di contenuti gli incassi relativi a queste poche copie vendute non fanno alcuna differenza significativa. La frase «I soldi maggiori sono nelle vendite più piccole » è diventata vera, ma solo per gli attori maggiori di questo settore commerciale. La prosperità promessa dalla teoria della Coda Lunga è diventata realtà solo per pochi.

Rispetto a quanto accadeva nell’era pre-Internet la popolarità è diventata ancora più squilibrata. Su Spotify, il servizio di streaming musicale con la maggior quota di mercato (il 32% nel 2021 ), il 90% degli incassi degli autori va a solo l’1,4% di tutti quelli presenti nel servizio, con un guadagno medio pro capite di 22.395 US$ per trimestre. Il restante 98,6% degli autori (circa 3 milioni) guadagna mediamente 36 UD$ a testa nello stesso periodo temporale.

Non ritengo che ci sia qualcosa di intrinsecamente sbagliato in questo meccanismo. Il talento estremo è molto raro e penso sia corretto che venga adeguatamente remunerato, soprattutto perché, alla fin fine, sono gli spettatori che scelgono volontariamente di pagare di tasca propria. Ciò che invece ritengo vada fatto da un punto di vista sociale sia di informare correttamente i giovani – che devono decidere quale strada scegliere per il loro futuro – dell’estremo squilibrio che caratterizza questo tipo di settori. Viceversa, spesso le sollecitazioni che vengono dal mondo dei media sono mirate a convincere che il successo e la fama (e i guadagni) siano lì a portata di mano di tutti quelli che si vogliono impegnare. Certamente, senza impegno costante e profondo, è improbabile arrivare a posizioni lavorative ben retribuite (a meno di essere favoriti dalla classe sociale cui si appartiene), ma nel settore dei contenuti creativi l’impegno, pur necessario, è un fattore molto meno determinante.

Come ha sottolineato bene Nassim Taleb nel suo famoso libro “Il cigno nero”, il successo ottenuto in questo tipo di attività è dipendente in modo elevato dal caso, anche quando si possegga un buon talento innato. Ne parlo in questo contesto perché il settore dell’intrattenimento è diventato economicamente sempre più rilevante, grazie anche al suo prestarsi molto bene a essere diffuso attraverso la tecnologia digitale. Il che aumenta ancora di più lo squilibrio nella distribuzione dei guadagni. Per tanto è opportuno che una società nel suo complesso, orienti le scelte dei giovani verso professioni “normali”, in cui si viene sostanzialmente pagati in modo proporzionale alla quantità di lavoro svolto.

Svolgendo un lavoro di questo genere, che è in pratica la sola tipologia che veniva presa in considerazione dalla stragrande maggioranza dei giovani fino a circa un secolo fa, è improbabile diventare ricchi, ma lo è anche diventare poveri. In questo senso si tratta di una situazione socialmente desiderabile perché minimizza il caso pessimo a cui le persone possono andare incontro.

Se 100 giovani vogliono fare gli scrittori e dedicano la loro vita a questo, è assai plausibile che a metà della loro vita al più una decina siano molto ricchi mentre i restanti 90 si arrabatteranno con lavoretti di sopravvivenza. Viceversa, se 100 giovani vogliono fare gli impiegati, il risultato più plausibile è che solo una decina di loro a metà della loro vita sia ancora in cerca di una sistemazione soddisfacente, mentre i restanti 90 avranno un lavoro fisso e avranno avviato una famiglia.

È evidente che sul piano sociale la seconda situazione, in cui le disuguaglianze del reddito sono molto meno accentuate, è assai più desiderabile della prima. Questo è accertato anche dall’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economica). Negli anni 80 il 10% più ricco della popolazione mondiale aveva un reddito solo 7,1 volte superiore a quello del 10% più povero. Nel 2015 era diventato 9,6 volte superiore (e sono convinto che gli ultimi dieci anni hanno aumentato ancora questo squilibrio). Come documentato sempre dall’OCSE, tra il 1990 e il 2010 si sono persi a causa di ciò nei paesi OCSE complessivamente 4,7 punti percentuali di crescita totale. Si considera spesso la California come lo stato degli USA al quale guardare, per la sua capacità di combinare tolleranza sociale e innovazione tecnologica che lo ha portato a essere, in modo paradigmatico, l’incarnazione del “sogno americano” e quindi, più in generale, dell’universale speranza in un futuro migliore. Ma il livello di disuguaglianza sociale in quello stato è maggiore di quello del Messico, alla pari con Guatemala e Honduras. Normalizzato rispetto al costo della vita, il tasso di povertà è il più alto di tutti gli USA. Nella zona che comprende San Francisco e i suoi dintorni, una delle più dinamiche e più sviluppate di tutti gli Stati Uniti, vivono 76.000 tra milionari e miliardari ma, allo stesso tempo, il 30% dei residenti riceve assistenza economica da enti pubblici o privati.

È questa situazione che ha portato diversi autori a parlare dell’epoca contemporanea come di un neo-feudalesimo o tecno-feudalesimo, basato invece che sul possesso della terra, sulla quantità di dati digitali. Descrivo più in dettaglio questo fenomeno nel mio volume La rivoluzione informatica, che rischia non solo di portare indietro di secoli il benessere delle persone, ma di arretrare l’impostazione della società da quel “governo delle leggi” che è stato essenziale per la nascita delle moderne società democratiche a un “governo degli individui” che ha caratterizzato i lunghi secoli nei quali gli individui erano asserviti, generazione dopo generazione, ai voleri e capricci del loro signore.

Esploreremo nel prossimo post, che concluderà questa passeggiata, come sia necessaria per contrastare questa deriva una nuova visione politica della società digitale.

--
Versione originale pubblicata da "Osservatorio sullo Stato digitale" dell'IRPA - Istituto di Ricerche sulla Pubblica Amministrazione il 7 maggio 2025.

sabato 3 maggio 2025

A passeggio con l’informatica #30 – L'impatto sociale della trasformazione digitale

di Enrico Nardelli

Abbiamo chiuso il precedente post ricordando che alla politica spetta un ruolo decisivo per governare l’uso dell’informatica nello sviluppo della società. In effetti, tutta la seconda parte di questa “passeggiata” è stata dedicata alla riflessione sui vari modi con cui le tecnologie informatiche hanno cambiato e stanno cambiando il nostro mondo. Ho già discusso l’intreccio tra la dimensione digitale e le altre dimensioni sociali ricordando che la vera sfida della trasformazione digitale è prima di tutto di natura sociale e politica e ho osservato – proprio nel primo dei post della seconda parte – che i cambiamenti causati dalla rivoluzione informatica hanno una natura radicalmente diversa da quelli di di ogni altra precedente rivoluzione.

In questo articolo sviluppo alcune considerazioni su questi cambiamenti sociali, partendo da una legge che ho formulato a questo proposito, la Legge sull’impatto sociale della tecnologia digitale:

L'impatto sociale della tecnologia digitale è imprevedibile,
anche tenendo conto della
Legge sull'impatto sociale della tecnologia digitale
.

Chi ha familiarità con Hofstadter, l'indimenticabile autore di "Gödel, Escher, Bach" (un saggio divulgativo sui fondamenti culturali dell’informatica che consiglio vivamente), riconosce che si tratta di una variazione della Legge di Hofstadter sulla pianificazione delle attività («Per fare una cosa ci vuole sempre più tempo di quanto si pensi, anche tenendo conto della Legge di Hofstadter »). Ritengo che la mia variazione sia una legge perfettamente giustificabile, considerato che la gran parte dell’umanità convive con strumenti digitali da neanche un quarto di secolo, nel quale molto poco è stato fatto dai governi per insegnare qualche concetto fondamentale.

Se osserviamo con un minimo di distacco lo sviluppo dell’umanità negli ultimi cinquemila anni — cioè da quando sono emerse società più complesse di una semplice comunità tribale — notiamo che le innovazioni tecnologiche, per quanto incisive, venivano assimilate lentamente. Le trasformazioni si distribuivano su molte generazioni, dando modo alle strutture sociali di adeguarsi gradualmente ai cambiamenti in corso.

Con la diffusione della tecnologia digitale, tuttavia, si è assistito a una repentina trasformazione che ha scardinato in un lasso di tempo brevissimo un paio di principi fondamentali che, nel bene e nel male, hanno sempre governato la nostra esistenza.

Il più significativo di questi principi è quello che ci ricorda l'ineluttabilità della fine. Ogni essere vivente è destinato a morire, e con la sua scomparsa spesso le sue azioni e le sue relazioni cadono nell'oblio. Nella nostra dimensione digitale questo non accade: con la crescente sofisticazione delle rappresentazioni digitali, tale sovvertimento entra sempre più in contrasto con il senso comune. È vero, anche secoli fa esistevano statue che tramandavano ai posteri le sembianze e le imprese di figure illustri, ma ora l'eternità (digitale) è accessibile a chiunque. Il secondo capovolgimento riguarda la dissoluzione dei limiti di spazio e tempo: qualsiasi contenuto digitale può essere copiato e distribuito istantaneamente, ovunque. Il nostro alter ego virtuale (sulla cui necessità di tutela costituzionale abbiamo già discusso) può essere moltiplicato all’infinito e diffuso senza alcun sforzo, una possibilità che un tempo era prerogativa delle divinità.

C’è poi un ulteriore effetto legato a questa nuova condizione: il concetto di fama ha subito un’espansione senza precedenti. Un tempo la popolarità si costruiva lentamente, trasmessa oralmente e limitata da confini geografici. L’invenzione della stampa prima, e poi i media audiovisivi come cinema e TV, hanno accelerato e ampliato la portata della notorietà, generando figure iconiche nel mondo dello spettacolo e dello sport. Oggi, grazie alla rete globale, ciò che conquista l’attenzione può farlo simultaneamente ovunque, mentre la stragrande maggioranza dei contenuti rimane invisibile. Basti pensare che, secondo dati di un paio d’anni fa, solo qualche decina di video su YouTube ha superato il miliardo di visualizzazioni, su un totale stimato di diecimila miliardi di video caricati.

Il superamento di queste due “colonne d’Ercole” ha avuto una conseguenza radicale: un’informazione, una volta resa pubblica in forma digitale, può sopravvivere per sempre e ovunque. Non stupisce, quindi, che il diritto naturale all’oblio abbia dovuto essere formalizzato in una norma specifica per ottenere riconoscimento nell’era digitale. E non è stato un passaggio immediato né indolore: prima che si arrivasse a una regolamentazione, molte vite sono state rovinate.

Il fatto che questi confini una volta considerati invalicabili siano stati abbattuti nell’arco di una singola generazione ci ha catapultati in una dimensione completamente nuova, dove rischiamo di ripetere il destino di Ulisse, così come raccontato nel suo folle viaggio oltre i limiti del mondo, nell’Inferno dantesco:

Tre volte il fé girar con tutte l’acque
a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com’altrui piacque,
infin che ’l mar fu sovra noi richiuso.

Il nodo centrale è proprio nella legge che ho precedentemente menzionato: la nostra difficoltà nel comprendere l'impatto di questa tecnologia deriva sia dalla sua natura troppo aliena rispetto a noi, sia dal fatto che la combinazione a crescita esponenziale delle interazioni tra tecnologie e contesti rischia di superare la nostra capacità di intendimento.

Eppure, la nostra storia evolutiva – da semplici primati a (quasi) dominatori del pianeta – dovrebbe insegnarci che ogni risorsa disponibile sarà sfruttata in ogni modo immaginabile. In molti casi, prevederne le conseguenze si rivela estremamente arduo.

Per questo, di fronte a un universo digitale fatto di infinite interazioni e scenari imprevedibili, ci sarebbe bisogno di procedere con estrema cautela. E invece, a volte, sembra che ci stiamo lanciando a tutta velocità e a occhi chiusi verso l’orlo del baratro.

Serve allora un’attenzione costante, una vigilanza rigorosa ogni volta che mettiamo mano alla "bacchetta magica" della tecnologia digitale. Perché potremmo trovarci nei panni dell’apprendista stregone, ma senza nessuno capace di intervenire quando le cose sfuggono al nostro controllo. Ecco perché questa bacchetta non può essere lasciata nelle mani delle grandi aziende tecnologiche, che grazie al loro enorme potere economico influenzano in modo decisivo tutti i mezzi di comunicazione raccontandoci sempre e solo le “magnifiche sorti e progressive” che aspettano l’umanità occultando le conseguenze negative. Ne vedremo un esempio nella prossima puntata.

--
Versione originale pubblicata da "Osservatorio sullo Stato digitale" dell'IRPA - Istituto di Ricerche sulla Pubblica Amministrazione il 30 aprile 2025.