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domenica 15 dicembre 2019

Conoscere l'informatica per governare la dimensione digitale della società nell'interesse nazionale

di Enrico Nardelli

Circa un mese fa abbiamo celebrato i 50 anni di internet, un’innovazione che sembrava fosse solo uno strumento ma che un artista visionario come David Bowie, nel corso di un’intervista alla BBC di venti anni fa, aveva definito «una forma di vita aliena, ... la nascita di qualcosa di esaltante e terrificante». Spesso gli artisti vedono con chiarezza ciò che scienziati e tecnologi non riescono ad afferrare bene, soprattutto quando si parla dell’impatto sociale delle loro scoperte.

Gli effetti sociali della tecnologia digitale sono ormai sotto gli occhi di tutti, soprattutto perché queste novità che sembrava dovessero portarci ad un futuro migliore stanno viceversa ingabbiando sempre di più la nostra vita quotidiana.

Nel titolo del libro di Soro presentato nel corso del convegno “I Dati tra Sovranità Digitale e Interesse Nazionale. Le Persone, le Pubbliche Amministrazioni e le Imprese”, svoltosi recentemente nell’Ateneo milanese, compare l’espressione “umanesimo digitale”, un termine che è stato anche al centro di un convegno scientifico cui ho partecipato come presidente di Informatics Europe, l’associazione che raggruppa dipartimenti universitari e centri di ricerca industriali che operano nel settore informatico. Il convegno ha prodotto un documento, il Manifesto di Vienna, che ricorda come le tecnologie digitali «stanno minando la società e mettendo in discussione la nostra comprensione di cosa significhi essere umani». Il manifesto – di cui sollecitiamo l’adesione da parte di persone e istituzioni – ricorda che la sfida per tutti noi è costruire una società giusta e democratica in cui le persone siano al centro del progresso tecnologico.

Questa è una sfida prima di tutto sociale e politica e solo in seconda istanza una sfida scientifica o tecnologica, perché la dimensione digitale è ormai sempre più intrecciata con le varie dimensioni sociali, che coprono tutti i vari rapporti (economici, giuridici, culturali, …) che si stabiliscono tra un insieme di individui. Questa dimensione, che è quella in cui sono presenti i dati digitalizzati, definisce quindi uno spazio sociale che, come ogni altro spazio sociale, può essere costruito secondo diverse visioni politiche. Ritengo quindi del tutto naturale che i governi vogliano attuare la loro attività di indirizzo e gestione anche nei confronti del digitale.

Quest’anno sono state scritte più o meno queste parole: «i dati di una nazione sono una risorsa collettiva, un bene nazionale. Questo paese e il suo popolo hanno un diritto di sovranità su tali dati, diritto che non può essere esteso a coloro che non ne hanno la cittadinanza». Non è avvenuto in Europa, non sono parole di un leader di uno di quei partiti ai quali molti media riservano l’etichetta di populisti. Queste parole sono contenute in un documento del governo indiano che ha definito nel febbraio di quest’anno una bozza di politica nazionale per l’e-commerce.

I think-tank internazionali hanno sollevato i soliti alti lamenti contro un protezionismo che ostacola il commercio e deprime l’economia. Ma non si capisce perché le risorse naturali di una nazione debbano essere protette e quelle digitali no. Ritengo quindi assolutamente legittimo e doveroso che uno Stato governi lo spazio digitale così come governa lo spazio fisico, visto che mondo naturale e mondo digitale sono ormai compenetrati e vanno gestiti insieme. Nella società digitale chi controlla i dati controlla la società. Germania e Francia vogliono cloud nazionali per archiviare dati con la garanzia che rimangano entro il perimetro dello Stato. Parigi e Barcellona sono gli esempi più famosi di città che hanno capito che i dati dei propri cittadini sono un bene preziosissimo.

Cos’è quindi necessario a questo scopo? Alcune riflessioni da studioso e cittadino, lasciando ai politici il compito di tirare le fila.

I nostri “doppi digitali” sono come noi, sono esattamente noi: come chiameremmo quei governanti che vendessero i propri cittadini a poteri stranieri? È lecito che questo accada nella dimensione digitale? A quali fini deve essere asservito il controllo e il governo di infrastrutture e dati digitali? Si ripete spesso negli ultimi anni che “i dati sono il nuovo petrolio”. Ma se questi dati sono quelli delle persone è corretto (socialmente, eticamente e politicamente) considerarli come una merce? Le persone sono una merce? C’è una scarsissima consapevolezza di questi aspetti, se in un famoso esperimento un negozio ha venduto oggetti a clienti che pagavano con i propri dati personali. Chiedo scusa in anticipo se il paragone è macabro, ma vi privereste di un dito per comprare un’automobile?

Penso che lo spazio digitale, come le soluzioni ad esso connesse, vadano curati nell'interesse della Nazione, cioè nell’interesse dei suoi cittadini. Abbiamo bisogno di una politica che ritorni ad esercitare per conto del popolo quella sovranità che l'articolo 1 della nostra Costituzione gli assegna.

Per far ciò è però necessario capire bene il nucleo fondante di questa “forma di vita aliena”, col termine usato da David Bowie vent’anni fa.

Il punto è che l’impatto del digitale sulla società è una vera e propria rivoluzione, che sarebbe più corretto chiamare rivoluzione informatica, perché è dovuta, più che al modo di rappresentare i dati, appunto in forma digitale, al fatto che l’informatica, la disciplina scientifica che è alla base di questa tecnologia, ci permette di costruire un nuovo tipo di macchine.

Queste macchine ricordano quelle che, nel corso della rivoluzione industriale, hanno reso possibile la trasformazione della società da contadina a industriale, ma sono diverse ed enormemente più potenti. Le macchine industriali sono degli amplificatori della forza fisica dell’uomo, le macchine della rivoluzione informatica sono macchine cognitive, amplificatori delle funzioni cognitive razionali dell’essere umano.

Attività cognitive che solo gli esseri umani erano in grado di compiere fino a poco tempo fa adesso sono alla portata delle macchine. Abbiamo iniziato con cose semplici, mettere in ordine liste di nomi, ma adesso possiamo riconoscere se un frutto è maturo o se un tessuto presenta difetti, per parlare di un paio di esempi resi possibili da quella parte dell’informatica che va sotto il nome di intelligenza artificiale.

Ci sono due problemi, però.

1. Queste macchine cognitive non hanno né flessibilità né adattabilità per cambiare il loro modo di operare al mutare delle condizioni al contorno. Tutti possibili scenari futuri devono essere stati in qualche modo previsti dai progettisti. Non possiamo quindi lasciarle operare da sole, a meno che non siano in contesti in cui siamo completamente sicuro che tutto è stato tenuto in considerazione. I giochi sono un esempio paradigmatico di questi scenari. Queste macchine cognitive sono meccanismi automatici, giganteschi orologi che si comportano sempre nello stesso modo. Questo è il motivo per cui molto spesso la trasformazione digitale fallisce. Perché si pensa che, una volta realizzato il sistema informatico, il lavoro sia completato. Invece, poiché nessun contesto è statico ed immutabile, sistemi informatici non accompagnati da persone in grado di adattarli all’evoluzione degli scenari operativi sono destinati al fallimento.

2. Queste macchine cognitive sono del tutto distaccate da cosa significhi essere persone. Qualcuno lo vede come un pregio, per me è un enorme difetto. Io ritengo che non esista la possibilità di determinare un unico modo migliore di prendere le decisioni. Quelli che pensano che mediante l’intelligenza artificiale si possa governare la società umana nel modo migliore per tutti sono degli illusi (o hanno interessi nascosti). Da che esiste la società umana è compito della politica quello di determinare la sintesi tra le esigenze contrastanti che sempre esistono in ogni consesso. E tale sintesi non può prescindere dal nostro essere umani. L’unica intelligenza che può prendere decisioni appropriate in questo contesto è l’intelligenza incarnata delle persone, non quella artificiale delle macchine cognitive.

Per avviarci però ad essere una società che governa in modo appropriato il digitale non possiamo prescindere – e siamo già in mostruoso ritardo – da una seria azione formativa a tutti i livelli sull’informatica. È necessario che l’informatica, la scienza che è alla base del mondo digitale, entri nella scuola così come ci sono fisica e biologia, le scienze alla base del mondo naturale.

Negli ultimi tempi sento spesso ripetere che bisogna insegnare il nuovo linguaggio del coding, cioè la programmazione informatica. Controbatto sempre che concentrarsi sul coding vuol dire formare operai digitali, che saranno i primi ad essere sacrificati dall’avanzare della tecnologia, e che invece bisognare insegnare i concetti scientifici di base dell’informatica.

Questa è la strada che stanno seguendo negli USA, un paese che ha lanciato la mania del coding, ma che poi ha inserito la Computer Science, cioè l’informatica, nella legislazione federale che prescrive quali sono le materie che uno studente deve studiare per ricevere un’istruzione “a tutto tondo”. Un’espressione molto umanistica per rimarcare che l’investimento in educazione è quello più importante e fruttuoso sul lungo periodo che un Paese possa fare.

In Europa, l’associazione di cui sono presidente, Informatics Europe, insieme ad altre associazioni scientifiche, ha lanciato l’iniziativa “Informatica per Tutti” con una dichiarazione, la Dichiarazione di Roma che chiede a tutte le istituzioni europee e internazionali di adoperarsi affinché lo studio dei fondamenti dell’informatica, indispensabili alla comprensione del mondo digitale, sia inserito nella scuola, a fianco dei fondamenti delle altre discipline scientifiche che rendono possibile alle persone di essere cittadini pienamente consapevoli della società contemporanea.

Come per altri grandi temi sociali, è compito della politica decidere cosa fare. Nella sfera del digitale, io sono solito ricordare una citazione di Evgenj Morozov (uno dei sociologi più lucidi in questo ambito) che nel suo libro “I signori del silicio” ha scritto «per un partito di massa odierno, non curarsi della propria responsabilità sul digitale equivale a non curarsi della propria responsabilità sul futuro stesso della democrazia».

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Versione originale pubblicata su "Key4Biz" il 2 dicembre 2019.

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