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giovedì 17 marzo 2016

Chi ha paura del pensiero computazionale?

di Enrico Nardelli

Sempre più frequentemente capita di leggere, nel contesto di riflessioni più generali, considerazioni critiche verso i progetti di formazione degli studenti al pensiero computazionale realizzati dal MIUR (Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca). Potete leggere su questa pagina l’ultima in ordine di tempo.

Come coordinatore insieme al collega Giorgio Ventre di Programma il Futuro, progetto di punta del MIUR in quest’ambito, ritengo che tali considerazioni siano, in una certa misura, un elemento positivo perché segno di una diffusione sempre maggiore della conoscenza di tale termine (di cui ho scritto più estesamente) e delle iniziative formative in questo campo. A titolo informativo ricordo che questo progetto, dopo il successo del primo anno è partito ancora meglio nel secondo coinvolgendo sinora circa 600.000 studenti e 10.000 insegnanti.

La motivazione addotta a sostegno di giudizi negativi nei confronti di progetti di questo tipo è che siano diseducativi perché spengono le capacità di giudizio degli studenti trasformandoli da teste pensanti in macchine calcolanti. Ma così facendo si dimostra anche una carente conoscenza del reale significato di tale espressione.

Formare al pensiero computazionale, infatti, vuole dire niente altro che sviluppare negli studenti quelle capacità logico-razionali che sono alla base di qualunque attività di critica. Quindi è esattamente l’opposto di ciò che viene contestato!

Il suo valore formativo è per certi versi assimilabile a quello che ha fatto ritenere, in modo continuativo almeno a partire dal Rinascimento, lo studio della geometria un passo essenziale nella formazione di un cittadino istruito. Per lo studente che avesse più tardi approfondito materie scientifiche o ingegneristiche esso costituiva un utile allenamento preparatorio, ma per coloro che si fossero dedicati a giurisprudenza o medicina la sua rilevanza educativa era basata sulla sua architettura logico-deduttiva.

Studiando la dimostrazione di un teorema di geometria lo studente viene formato ad analizzare quali siano le basi su cui esso è fondato (gli assiomi) e a valutare se assumendo come vere certe premesse (le ipotesi) ne discendono necessariamente certe conclusioni (le tesi). Questo allenamento di base è essenziale per prepararsi a capire, ad esempio, da avvocato o giudice se una persona è colpevole o meno, o da medico di quale malattia sia affetta.

Allo stesso modo, sviluppando un programma informatico, che è l’esempio concreto più immediato di pensiero computazionale, lo studente è costretto a riflettere se questo programma, cioè il piano di lavoro che prepara per l’esecutore, metterà quest’ultimo in grado di raggiungere l’obiettivo desiderato. Ricordo infatti – in estrema sintesi – che mediante il pensiero computazionale si definiscono procedure che vengono poi attuate da un esecutore automatico, che opera nell’ambito di un contesto prefissato, per raggiungere degli obiettivi assegnati. È importante sottolineare che l’esecutore automatico di un programma informatico è un meccanismo puro, sprovvisto di qualunque intelligenza che possa trarlo d’impaccio in caso di difficoltà che non siano state previste dal suo programmatore.

Il fatto che tale esecutore automatico sia, in termini umani, così stupido da dovergli spiegare ogni cosa in dettaglio è una palestra fondamentale per allenare lo studente a qualunque futuro lavoro. Qualunque sia, egli dovrà guidare o comunque interagire con altre persone, che sono esecutori intelligenti, per conseguire i suoi obiettivi. Aver fatto pratica in condizioni più difficili costituisce una preparazione altamente rilevante.

Un collega, brillante algoritmista di valore internazionale, mi ha recentemente raccontato, adesso che è costretto dalle circostanze a dedicare tempo ad attività di amministrazione e governo del suo ateneo, che la forma mentis acquisita in tanti anni di produzione di “ricette” che guidassero stupidi meccanismi a risolvere problemi difficili è stata fondamentale per definire procedure e regolamenti che fanno funzionare meglio quei sistemi intelligenti che sono le organizzazioni umane.

Questo valore formativo dell’educazione al pensiero computazionale è riconosciuto in tutto il mondo, anche al di là dell’immediato impatto in termini occupazionali (che non è comunque da sottovalutare, visto che la maggior parte dei laureati triennali in Informatica ed Ingegneria Informatica trova subito lavoro).

Ho parlato recentemente in questo blog dell’iniziativa di Obama negli USA per finanziare la formazione informatica per tutti gli studenti con 4 miliardi di dollari. In conseguenza dell’attività di Code.org, l’organizzazione no-profit rappresentata in Italia dal CINI (Consorzio Interuniversitario Nazionale per l’Informatica) che ne usa il materiale didattico come base per le attività formative di Programma il Futuro, negli ultimi due anni il numero di stati americani che hanno introdotto lo studio del pensiero computazionale nella scuola secondaria è passato da 12 a 29.

L’associazione europea degli informatici, Informatics Europe, di cui sono stato vice-presidente fino all’anno scorso, ha prodotto nell’aprile 2013 il rapporto “Europe cannot afford to miss the boat”, che sottolineava che “non offrire un’appropriata formazione informatica vuol dire danneggiare le future generazioni, in termini sia educativi che economici”.

Nel Regno Unito la formazione al pensiero computazionale è stata già introdotta dal settembre 2014 per tutti gli studenti in tutti gli ordini di scuola, anche sulla base del rapporto di gennaio 2012 “Shut down or restart” della Royal Society, una delle associazioni scientifiche più prestigiose al mondo, che aveva concluso che “è essenziale per tutti gli studenti acquisire familiarità con i concetti fondamentali dell’informatica”.

L’Accademia Francese delle Scienze, nel suo rapporto del maggio 2013 “Il est urgent de ne plus attendre”, ha sottolineato che “l’insegnamento dell’informatica deve essere indirizzato a tutti” e che “dovrebbe iniziare nella scuola primaria”. Essa costituisce già materia di insegnamento in Francia nella secondaria superiore ed è in programma il suo allargamento agli altri ordini di scuola.

Che il pensiero computazionale sia una componente fondamentale di un’istruzione bilanciata e adeguata per gli studenti del 21-mo secolo è un fatto ormai consolidato.

La sfida ora è quella di non demonizzare strumenti culturali che ci aiutano a leggere e comprendere meglio la società contemporanea. Se non capiamo come funzionano e come si governano le “macchine dell’informazione” potrebbero essere loro a governare noi.

Pubblicato il 10 marzo 2016 su Il Fatto Quotidiano

domenica 13 marzo 2016

La casa dalle pareti di vetro?

di Isabella Corradini

Sembra che Apple stia lavorando alla realizzazione di un nuovo i-Phone “inviolabile”, in grado di impedire alle forze dell’ordine di accedere al contenuto sul dispositivo.

Ma cosa ne pensa l’opinione pubblica? A tal proposito interessanti sono i risultati di un sondaggio sul tema Internet Security and Trust condotto dal Centre for International Governance (https://www.cigionline.org/internet-survey-2016), che ha coinvolto oltre 24 mila utenti in 24 paesi tra novembre e dicembre 2015.

La maggior parte delle persone è contraria alla costruzione di una tecnologia inviolabile. Inoltre, chi è favorevole a consentire alle autorità ad accedere alle conversazioni private online lo è se sono presenti validi motivi, come la sicurezza nazionale e il sospetto della commissione di un crimine.

In particolare, nel sondaggio è stato chiesto se si era d’accordo o meno con tre specifiche dichiarazioni, ovvero:

  1. Quando qualcuno è sospettato di un crimine il governo dovrebbe essere in grado di identificare con chi il sospettato ha comunicato online. L’85% degli intervistati si è dichiarato d’accordo.
  2. Se ci sono dei validi motivi di sicurezza nazionale le forze dell’ordine dovrebbero avere il diritto di accedere al contenuto delle comunicazioni online dei cittadini. Il 70% degli intervistati è stato d’accordo.
  3. Non deve essere permesso alle industrie di sviluppare tecnologie che impediscono alle forze dell’ordine di accedere al contenuto delle conversazioni online di un individuo. Il 63% degli intervistati ha concordato con questa dichiarazione

L’elevata percentuale di persone d’accordo con le prime due dichiarazioni è in qualche modo plausibile, visto che si tratta di estensione al contesto online di azioni normalmente possibili alle forze dell’ordine in situazioni più tradizionali.

E’ invece evidente che la terza questione è più controversa, pur se la maggioranza è d’accordo.

Forse il fatto che un terzo degli intervistati si sia dichiarato contrario può essere imputato ad una certa consapevolezza che ormai molta parte della nostra vita è presente nelle nostre conversazioni online. Pertanto l’assenza di una tecnologia quale quella descritta nella domanda potrebbe essere percepita come l’essere costretti a vivere in una “casa di vetro” senza alcuna possibilità di difesa del nostro privato.